GUERRE
AMERICANE
Torture,
accadde domani
Trofei Dall'invasione
del Vietnam a quella dell'Iraq, una verità in comune
di JOHN PILGER
Quando, negli
anni `60, mi recai per la prima volta a Saigon per documentare la guerra
contro il Vietnam, visitai le redazioni dei grandi giornali e delle grandi
emittenti televisive americane e le agenzie di stampa internazionali. Tra
le loro bacheche per le affissioni c'era una rassomiglianza che mi colpì.
«Lì mettiamo la nostra coscienza» mi disse il fotografo di un'agenzia.
In tutte c'erano foto che rappresentavano corpi smembrati, soldati che
tenevano in mano orecchie e testicoli mozzati, e c'erano i momenti stessi
della tortura. C'erano uomini e donne picchiati a morte, affogati,
umiliati in modo rivoltante. Una foto aveva un fumetto incollato sopra la
testa del torturatore che diceva: «Così imparerai a parlare con la
stampa». Ogni volta che i visitatori vedevano quelle foto, sorgeva la
stessa domanda: perché non venivano pubblicate? La risposta standard era
che i giornali non le pubblicavano perché i lettori non le avrebbero
accettate. E pubblicarle senza illustrare il contesto più ampio della
guerra sarebbe stato «fare del sensazionalismo». All'inizio, accettai
questa logica apparente; le atrocità e le torture da parte «nostra»
erano sicuramente anomalie, per definizione. Da quel momento in poi, la
mia educazione procedette spedita; perché questa logica non spiegava
l'aumentare dei casi di civili uccisi, mutilati, privati di un tetto e
resi folli da bombe «antipersona» lanciate su villaggi, scuole e
ospedali. Non spiegava perché così tanti soldati conservassero resti
umani nel portafogli, e gli ufficiali dei reparti speciali tenessero nei
loro alloggiamenti dei teschi su cui erano incise le parole: «Fuori uno,
presto un milione».
Philip Jones Griffiths, il grande fotografo freelace gallese con cui ho
lavorato in Vietnam, e altri cercarono di proporre alle agenzie di stampa
fotografie che dicevano la verità su quella guerra atroce. La risposta
spesso era: «Be', che c'è di nuovo?».
Oggi la differenza è che fa notizia la verità dell'altrettanto atroce
invasione anglo-americana dell'Iraq. Inoltre i documenti del Pentagono che
sono stati fatti trapelare dimostrano che la tortura è largamente diffusa
in Iraq. Secondo Amnesty International è «sistematica». Eppure, abbiamo
solo iniziato a identificare lo storicamente indicibile che unisce
l'invasione del Vietnam e quella dell'Iraq. Questo elemento accomuna gran
parte delle occupazioni coloniali, ovunque e in qualunque momento. È
l'essenza dell'imperialismo, una parola che ora sta riapparendo nei nostri
dizionari. È il razzismo.
In Kenya, negli anni `50, gli inglesi massacrarono circa 10.000 kenioti e
organizzarono campi di concentramento dove le condizioni di vita erano così
pesanti che 402 internati morirono in un solo mese. All'epoca, niente di
tutto questo diventava notizia. Del «terrore dei Mau Mau» si scrisse - e
fu percepito - in un solo modo: il nero «demoniaco» contro il bianco. In
Kenya, come nel fallito tentativo americano di colonizzare il Vietnam, era
il razzismo ad alimentare gli attacchi indiscriminati contro i civili e le
torture. Arrivati in Vietnam, gli americani vedevano i vietnamiti come
pidocchi umani. Li chiamavano gooks, dinks, slopes («musi
gialli» e altri termini spregiativi, ndt) e ne uccisero in quantità
industriali, proprio come avevano massacrato i nativi americani; per la
verità, il Vietnam veniva chiamato «territorio indiano».
In Iraq niente è cambiato. Vantandosi apertamente di uccidere «i topi
nelle loro tane», i tiratori scelti dei marines - che a Falluja hanno
ucciso donne, bambini e anziani proprio come i tiratori scelti nazisti
sparavano agli ebrei uccidendoli nel ghetto di Varsavia - riflettono il
razzismo dei loro capi e della loro società. Paul W. Wolfowitz, il
vicesegretario alla difesa che si dice sia stato l'architetto
dell'invasione in Iraq, ha parlato di «serpenti» e di «prosciugare le
paludi» nelle «regioni del mondo non civilizzate».
In Vietnam, l'eccidio di donne e bambini nel villaggio di My Lai fu
definito una «tragedia americana» dalla rivista Newsweek.
Preparatevi a sentire ancora parlare di «una tragedia nostra»,
una linea che ispira simpatia per gli invasori. Gli americani hanno
lasciato in Vietnam tre milioni di morti e una terra, un tempo generosa,
devastata e avvelenata per effetto delle armi chimiche. Mentre i politici
americani e Hollywood si torcevano le mani per i soldati americani missing
in action, a chi importava qualcosa dei vietnamiti?
In Iraq niente è cambiato. Secondo le stime più prudenti, americani e
inglesi hanno lasciato sul terreno 11.000 civili morti. Se includiamo i
soldati iracheni, la cifra si quadrupla.
«Noi contiamo ogni cacciavite, ma non contiamo gli iracheni morti» ha
detto un ufficiale americano durante il massacro del 1991 nel Golfo. Adam
Ingram potrà non essere così colto, ma il suo modo di disonorare la vita
umana è il medesimo. , Dopo tutto, egli rappresenta un leader la cui «purezza»
cristiana da ancien régime gli permette di uccidere e di essere
scusato.
Sì, le atrocità e le torture ora fanno notizia. Ma come?
Qual è, chiede lo scrittore Ahdaf Soueif, il contesto?
Un giornalista della Bbc ha definito le foto delle torture «semplici foto
ricordo». Sì, naturalmente: proprio come i resti umani conservati nei
portafogli, in Vietnam. I commentatori della Bbc - sempre la miglior
misura dell'atteggiamento dell'establishment - ci ricordano che le torture
dei britannici «non sono paragonabili alle torture e alle esecuzioni
sistematiche di Saddam Hussein». Saddam, notava l'autore del servizio, è
oggi «la bussola morale dell'Occidente». Con lodevoli eccezioni,
l'occupazione principale del giornalismo resta quella di difendere il mito
di uno stato britannico (o americano) benigno e minimizzare le
responsabilità dei suoi uomini.Non possiamo restituire vite irachene
spazzate via o distrutte da quanti agiscono in nostro nome. Ma, almeno,
dobbiamo esigere che i responsabili di questo crimine epico lascino subito
l'Iraq, e che a noi sia data la possibilità di perseguirli penalmente e
giudicarli, e riparare i torti subiti dal popolo iracheno. Non farlo
squalificherebbe «noi» in quanto persone civili.
Trad. di Marina Impallomeni
testo integrale tratto da "Il
Manifesto" - 13 maggio 2004