I Crack finanziari - la morale e gli affari «Chi ha la responsabilità paghi» Tettamanzi: primato dell’etico sull’utile di Giovanni Santambrogio Milano. Il “caso Parmalat” segna uno spartiacque anche nella Chiesa italiana. Se finora la riflessione si era concentrata sull’economia e il profitto, adesso l’attenzione etica si allarga ad abbracciare anche la finanza. Lo fa nei modi più consoni, ma con maggiore vigore rispetto al passato. Il cardinale Camillo Ruiimi, presidente della Cei, aprendo a Roma la seduta della Conferenza episcopale lunedì 19 gennaio è stato esplicito: «Si tratta ora di salvare un’industria alimentare di grande rilievo, con i relativi posti di lavoro, ma anche di mettere a punto gli strumenti meglio idonei per garantire l’affidabilità degli investimenti nel nostro Paese e per tutelare i risparmiatori» Per poi aggiungere: «Amare sorprese di questo genere spingono con forza riscoprire il valore dell’etica, non semplicemente come un fattore esterno rispetto alle attività economiche, ma come condizione intrinseca di un loro sano e costruttivo svolgimento». Ad ascoltare queste parole c’era anche il cardinale di Milano, Dionigi Tettamanzi, uomo lombardo, pragmatico e per nulla schivo. Anzi, pronto ad affrontare le contraddizioni e le emergenze del presente. Sull’economia e la finanza, prima ancora del crack e di Collecchio radunò la comunità finanziaria di Milano per ragionare su concentrazioni, fusioni d’impresa, sistema bancario e attività di Borsa. «Non è l’uomo per la finanza, ma la finanza per l’uomo» fu il titolo del suo intervento sull’operare nel credito e nella finanza. Il testo, pubblicato dal Centro Ambrosiano, scende in molti dettagli abbandonando un certo paternalismo ecclesiastico. Se l’importanza del profitto non viene messa in discussione, un punto viene denunciato: la finanza è sempre più avulsa dall’economia produttiva. Constatazione che porta Tettamanzi a un preciso giudizio: «Rendendosi autonoma dall’economia produttiva, la finanza si è resa autonoma anche dalla morale». Almeno, precisa, «nel senso che la morale non sembra essere intrinsecamente esigita in ambito finanziario». Con «Il Sole- 24 Ore» affronta e approfondisce le implicazioni etiche della finanza anche a partire dal caso Parmalat. Eminenza, non passa giorno che le banche non siano al centro di numerose critiche. Prima l’Argentina, poi il caso Cirio e adesso Parmalat. Si rimprovera loro un rapporto poco trasparente con i piccoli investitori. C’è un’etica anche per i banchieri e le banche? Certamente non posso qui addentrarmi in un terreno che esula dalla mia competenza. Penso però che si deve riconoscere la notevole differenza che esiste tra l’operazione di acquisto di titoli da una banca su esplicita richiesta del proprio cliente e in cui la banca ha semplicemente svolto un servizio richiesto, e il caso in cui la banca abbia consigliato l’acquisto di determinati titoli o addirittura lo abbia fatto di sua iniziativa avendo un mandato di gestione sui risparmi dei propri clienti. In questi ultimi casi, mi sembra moralmente doveroso che l’istituto bancario consideri le proprie responsabilità e assista concretamente soprattutto il piccolo risparmiatore, fino ad assumersi in parte o in toto l’onore della perdita. Per quanto riguarda l’etica dei banchieri, vale il criterio della responsabilità di ciascuno nello svolgere il proprio lavoro con coscienziosità, competenza, diligenza ed onestà, nonché secondo giustizia e solidarietà. Quali principi morali sono richiesti a chi ha grandi responsabilità finanziarie? I principi morali elaborati dalla riflessione etica, come il bene comune, la solidarietà e la sussidiarietà, la destinazione universale dei beni, sono validi per tutti e sempre, ma ciascuno li deve applicare alla propria concreta condizione di vita e alla propria specifica professione. Indubbiamente chi ha ruoli importanti nella vita sociale ed economica ha anche il compito etico di svolgere il proprio lavoro con profonda attenzione ed onestà, avvertendo espressamente il peso della responsabilità di fronte all’azienda in cui opera e all’intera società. A tutti i livelli – ma in primis ai componenti degli Organi di governo e all’alta direzione delle aziende – è richiesto un forte grado di consapevolezza del proprio ruolo e di responsabilizzazione perché agire significa sempre rispondere a qualcuno di qualcosa. Se dovesse indicare alcuni punti fermi per l’uomo di finanza che principe e valori segnalerebbe? Tra i principi e valori che si impongono all’attenzione, direi che l’uomo dedito alla finanza deve fare della responsabilità la scelta fondamentale inerente alla propria professione. Responsabilità intesa anzitutto come un’attitudine interiore, una “forma mentis”, uno stile operativo e comunicativo che è da acquisirsi progressivamente e che non deve essere accantonato, perché divenuto parte di sé stessi, della propria scelta di vita. E’ la scelta di chi decide di svolgere il proprio ruolo coscienziosamente, con competenza, diligenza, onestà trasparenza nel comunicare, senso del limite, secondo giustizia e da ultimo con perseveranza, assumendosi fino in fondo il carico delle proprie decisioni e di tutte le conseguenze che potrebbero derivarne, anche se in qualche modo imprevedibili. Ha parlato di responsabilità. Ma di fronte a chi? A chi si deve “rendere conto” delle proprie scelte e del proprio operato? Certo ai clienti, alla società, allo Stato. Ma anche, e prima di tutto, a Dio e alla propria coscienza retta e vera. Di qui la necessità e l’urgenza di una adeguata formazione della coscienza che, per cristiani che operano nella finanza, non può non lasciarsi ispirare e guidare alla dottrina sociale della Chiesa. Non Le sembra che ci sia una caduta generalizzata della responsabilità? Come rilanciare questo valore? I recenti eventi legati all’Argentina, alla Cirio, a Parmalat, hanno dimostrato che l’irresponsabilità non paga mai, neppure sotto il profilo del guadagno. Soltanto un esercizio congiunto delle responsabilità - da parte dei quadri dirigenziali aziendali, delle società di revisione, dei responsabili (si chiamano non casualmente così) delle istituzioni creditizie e governative - può ricreare quel clima di fiducia di cui il credito ha bisogno per alimentarsi e può rispettare le scelte dei piccoli risparmiatori, sui quali è andata addirittura a trasferirsi altrui irresponsabilità. Soltanto questo esercizio congiunto delle responsabilità può favorire quella ripresa non soltanto economica, ma più ampiamente sociale e civile che, viceversa, rischia di farsi sempre più attendere. Alla responsabilità bisogna di continuo educare noi stessi ed educare gli altri. Penso al grandissimo valore educativo affidato, in particolare, alle istituzioni di cultura professionale e alle Università, chiamate a offrire non soltanto strumenti tecnici sempre più raffinati ma anzitutto una formazione in grado di restituire attenzione vera tutti gli aspetti basilari dell’etica e della deontologia professionale. Ritengo poi che alla disciplina legislativa, in questo campo, potrebbe contribuire non poco a precisare gli aspetti giuridico-professionali e le implicazioni oggettive delle responsabilità dell’operatore finanziario. Nella parabola evangelica si condanna chi nasconde sotto terra i talenti e si elogiano coloro che li trafficano. E’ un esplicito invito all’investimento. Che cosa significa nel presente ottenere almeno gli interessi? La parabola evangelica invita ad usare bene i doni ricevuti e si riferisce anzitutto a beni diversi da quelli materiali. Tuttavia, anche l’avere delle responsabilità economiche deve considerarsi un dono che non va sotterrato, ma fatto fruttare. Il criterio evangelico del portare frutto è comunque etico e consiste nella finalizzazione del bene comune, ossia al bene di tutto l’insieme sociale, oltre che di ciascuno. Anche di fronte ad una decisione finanziaria dobbiamo scegliere se dare il primato all’aspetto etico o darlo al proprio profitto. Come da chi è medico ci si attende che abbia anzitutto a cuore la salute dei propri pazienti e da un insegnante la cura per la formazione dei propri alunni e soltanto poi la rispettiva giusta rimunerazione, così da un operatore finanziario ci si attende un esercizio delle proprie capacità professionali non col fine esclusivo o prevalente di massimizzare i propri profitti, ma di ricercare opportunità meritevoli di investimento, di “credito” nel senso più elevato del termine. Le realtà produttive più solide sono quelle in grado di dare occupazione a molti, di creare utilità a condizioni apprezzabili e fruibili da molti, di permanere nel tempo. In questo modo, mentre non rimane evidentemente escluso un profitto, viene soprattutto rispettato quel primato dell’etico sull’utile che, nel lungo termine e in un numero elevato di casi, si dimostra poi tutt’altro che perdente. Semplicemente, ma non astrattamente, ci si dovrebbe sempre chiedere: il profitto che si raggiunge a che cosa e a chi è finalizzato, che cosa e chi deve servire? Finora la Chiesa si è occupata di economia, di equità sociale, ma poco di finanza. Oggi la finanza ha acquistato un ruolo rilevante nel sistema economico ma anche nella vita delle famiglie. Come la Chiesa vede questo fenomeno e come lo sta studiando? Il rilevo straordinario assunto dalla finanza nell’ambito dell’economia è fenomeno certamente recente, che tuttavia la Chiesa, mediante le forme proprie dell’annuncio evangelico in ambito sociale, ha già affrontato in più di un’occasione da molto tempo. Ne parlava già Pio XI nell’enciclica Quadragesimo Anno del 1931 evidenziando i pericoli della concentrazione del potere economico e del capitale nelle mani di pochi; ne ha parlato il Concilio Vaticano II nella costituzione Gaudium et spes; infine Giovanni Paolo II è intervenuto a riguardo in diverse circostanze. Oltre la denuncia dei pericoli di ingiustizia, vi è il riconoscimento delle molteplici opportunità positive dischiuse dalle enormi possibilità legate all’uso dei mezzi finanziari. Ad una condizione però: che tale uso sia guidato da solidi criteri etici , da iscriversi il più possibile entro gli ordinamenti civili , a livello sia di nazioni sia di organismi internazionali. Quanto poi alla vita delle famiglie, si tratta di ricostruire in modo non penalizzante quel patto tra intermediario finanziario, persona e famiglia che ha caratterizzato l’evolversi di un sistema finanziario, persona e famiglia che ha caratterizzato l’evolversi di un sistema finanziario come il nostro – lombardo ed italiano in genere - , sorto proprio per tutelare le forme “minori” del risparmio, il lavoro e la vita familiare. Se posso, aggiungerei una mia personale osservazione: nella dottrina sociale della Chiesa e, più in generale, nella riflessione etica cristiana troviamo riferimenti espliciti al “giusto salario”, al “prezzo equo” e al “giusto profitto”. Si dovrebbe stendere la riflessione ai criteri per la fissazione di un “giusto tasso di interesse” o di “giuste competenze bancarie” o simili, in condizioni di trasparenza, parità ed uguaglianza nei confronti di tutte le categorie di operatori, tutelando in particolare i piccoli risparmiatori. Il caso Parmalat sembra rispondere alla fotografia da Lei fatta nell’incontro con la comunità finanziaria di Milano. Parlava di «finanza avulsa» che «rendendosi autonoma dalla economia produttiva, si è resa autonoma anche dalla morale». La finanza ha una morale e quali sono i suoi cardini? Titolavo nel mio intervento non è l’uomo per la finanza, ma la finanza per l’uomo». La finanza dunque non può estraniarsi dalla sua finalità più profonda, che è quella di essere uno strumento a servizio dell’uomo per garantire l’armonico sviluppo e la piena dignità: Ogni attività finanziaria ha origine nell’operare economico umano, nella capacità umana di utilizzare le risorse per il bene comune, dove anche il denaro e il profitto acquisiti dall’attività economica sono beni, ma non fini a se stessi, bensì strumenti che come tali vanno utilizzati. E vale la pena ricordare che gli uomini, al cui servizio deve porsi la finanza, sono tutti: gli uomini della finanza, gli investitori, gli azionisti, i lavoratori, i risparmiatori e, ultimamente, ogni cittadino e l’intera collettività nazionale e internazionale. L’attività finanziaria infatti, direttamente o indirettamente, tutti li raggiunge e li coinvolge nel bene come nel male. Si, la finanza deve essere a servizio di tutti gli uomini, ma non in modo indifferenziato. C’è, pertanto da offrire maggiori garanzie a chi è meno tutelato, perché più povero, più debole, meno competente. Lo esige il bene comune.
testo integrale tratto da "Il Sole 240re" - 28 gennaio 2004 |
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