PALESTINA


Stormi di uccelli fino a Roma
di SALMAN MASALHA *


Alla fine degli anni 50 ero un bambino, ingenuo e innocente. La mia piccola mente di arabo non era mai stata attraversata dall'idea di quali fossero le misteriose intenzioni degli stormi di uccelli che si posavano, vicino alla raccolta delle olive, sugli uliveti del villaggio di Al-Maghar, sul mare di Galilea. Ogni autunno, quando una nera nube di uccelli appariva all'orizzonte, gli abitanti del villaggio andavano nei campi muniti di oggetti rumorosi. Si affannavano a scacciare gli invasori per salvare il loro raccolto, che a quei tempi era la principale fonte di sostentamento. Ma quando gli uomini raggiungevano gli uliveti, i pennuti si erano già saziati di olive e si rimettevano in viaggio. La nube si levava dalle cime degli alberi, oltrepassava le colline e si allontanava verso ovest, fino a scomparire. Stagione dopo stagione, si susseguirono molti raccolti, e passarono molti stormi prima che io partissi alla volta di Gerusalemme, per acquistarvi conoscenza e saggezza. Ma la saggezza che Gerusalemme mi diede fece scomparire per sempre la mia ingenuità. E oggi mi ritrovo a intraprendere viaggi su viaggi, veleggiando alla ricerca della perduta innocenza, di quel Paradiso scomparso. Dico «veleggiando» ma per chi vive a Gerusalemme è difficile usare questa espressione: da qui ci vuole un'ora per raggiungere, in auto, il Mediterraneo, e si può veleggiare solo su ali metaforiche. Il mare Mediterraneo non separa le terre del Nord da quelle del Sud e d'Oriente da un punto di vista meramente geografico. Ha separato gli individui e le tribù. Oggi separa la libertà individuale e la democrazia, cresciute sulle sue sponde settentrionali, dalla tirannia che, sulle rive meridionali e orientali, non consente all'individuo libertà d'azione. E con l'individuo sono scomparse anche la bellezza e la creatività. Questo mare segna il confine tra l'uva e la palma da dattero, tra il vino e il divieto di berlo, tra l'uva, frutto che migliora di anno in anno e il dattero che non lascia nulla dietro di sé. Lo scontro tra le due sponde ha prodotto in passato un mito arabo che spiega l'invincibilità dei Romani. Il regno di Roma poteva conoscere in anticipo le intenzioni dei suoi nemici e organizzare la propria difesa nel modo più efficace. Ma Roma, simbolo del mondo occidentale, non si limitava a difendersi. Attaccò, occupò e sfruttò il sud per secoli. Sull'atteggiamento dell'Occidente nei confronti dell'Oriente, possiamo portare ad esempio le parole di Mark Twain dai resoconti di viaggio: «Non ho mai perso occasione d'impressionare gli arabi parlando loro della perfezione delle armi americane e inglesi e delle pericolose conseguenze di un eventuale attacco contro gli occidentali». È forse cambiato qualcosa da allora? Oggi so che le olive del villaggio di Maghar, durante i giorni della mia innocenza, venivano portate a Roma nei becchi e nelle grinfie degli uccelli. Non chiedo la loro restituzione, ne quella dell'olio e della luce, anch'essi un tempo sottratti al Sud e portati a Roma. Questa e altre città della sponda occidentale del Mediterraneo possono però dare un po' della loro luce eccedente a quelle parti del mondo ancora oggi buie e affamate sulle coste meridionali e orientali. E dico «dare», non solo nel senso economico del termine ma piuttosto nel senso spirituale: «dare» libertà, prosperità e democrazia.

L'Europa può svolgere un ruolo decisivo nella costruzione della pace nel Medio Oriente insanguinato, da quando i suoi confini sono stati cancellati e ridefiniti in modo forzato dalle potenze imperialiste occidentali, che hanno creato nuove entità politiche, senza tener conto degli interessi nazionali, sociali e umani delle popolazioni locali. Ciò fu fatto allora, perché l'Europa potesse continuare a fare nella regione i propri interessi, che non coincidevano con quelli delle popolazioni locali. Oggi sembra però che l'Europa si sia tirata fuori dal gioco, lasciando campo libero all'unica grande potenza rimasta. Ha invece la responsabilità morale delle sorti della regione e deve assumersela pienamente: i popoli di questa parte del mondo hanno bisogno dell'Europa, così come lei ha bisogno di loro.

In passato sono stati firmati trattati di pace tra Oriente e Occidente. L'Occidente sapeva come fare doni all'Oriente. Ma, a quei tempi, erano doni di altra natura, i cui effetti erano a breve termine. Si racconta che quando Qubadh, il re di Persia, fece la pace con Cesare, Cesare gli inviò molti doni. Tra questi, c'era la statua in oro zecchino di una giovane cantante. A certe ore della notte, la statua cantava, inducendo al sonno chi la udiva. Sembrerebbe che il sonno che si impadronì dell'Oriente si sia protratto per molte centinaia di anni e che i popoli della regione non siano ancora riusciti a svegliarsi.

Ora, io non sono una statua che canta ma una statua di altra natura, e in carne e ossa. E per impedire che le mie parole vi facciano precipitare in un lungo sonno, vi reco dall'Oriente una campana di libertà, che intende far suonare il suo allarme, prima che la distruzione si abbatta su noi tutti.

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Salman Masalha è un importante poeta palestinese. Il brano è tratto dall'intervento che pronuncerà giovedì 27, al convegno su Mediterraneo e globalizzazione (Protomoteca in Campidoglio), promosso da Legambiente e Comune di Roma (con Ignacio Ramonet, Wolfgang Sachs, Cristophe Aguiton, Walter Veltroni, Giuliano Amato).

 testo integrale tratto da "Il manifesto" - 26 novembre 2003