LA FINE
DELL’IDEOLOGIA POLITICAMENTE SCORRETTA
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di Barbara Spinelli
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La scorsa settimana è stata dura, per quel
gruppo di neoconservatori che ha messo radici nella cultura
americana e che a partire dall’11 settembre 2001 s’è
identificato con le guerre di Bush per l’esportazione della
democrazia. Il politicamente scorretto era stata la loro forza, per
anni. Non c’era legge che essi non mettessero in forse, con
spavaldo compiacimento. Non c’era capitolo storico, non c’era
mito, non c’era regola, che essi non contestassero, come rimasugli
di un’era tramontata. In principio l’offensiva parve salutare,
perché mise fine a tanti dispotismi del politicamente corretto:
dispotismi che avevano sottoposto le società a un carico esagerato
di diritti, come spiega Federico Rampini nel suo libro sul
neoconservatorismo in America (Tutti gli Uomini del Presidente,
Carocci). Dispotismi che avevano visto le sinistre lungamente
egemoni, in Europa occidentale e America: è il motivo per cui tanti
intellettuali furono affascinati dalla veemenza iconoclasta della
controffensiva Usa, e dalla sua traduzione militare. Ma il
politicamente scorretto ha finito col generare mostri, in questi
giorni. Le fotografie sulle torture di prigionieri iracheni a Abu
Ghraib sono l’amaro frutto d’una battaglia che voleva produrre
anticonformismo trasgressivo e ha invece generato indecenza,
incompetenza, e - per le democrazie - perdita d’influenza
mondiale.
La cultura del politicamente scorretto aveva preso il potere,
nell’America di Bush, e trionfalmente era partita in guerra con
l’idea di esportare la democrazia nel mondo arabo-musulmano. Lo
avrebbe fatto «togliendosi i guanti», disse un ex agente Cia dopo
l’11 settembre. La guerra contro il terrorismo avrebbe sospeso
tutte le regole escogitate dopo due conflitti mondiali: le
convenzioni di Ginevra sui diritti dei prigionieri o le leggi
incarnate dall’Onu. E questo senza porsi scadenze, visto che la
guerra era infinita. I torturatori Usa non avevano forse ricevuto
istruzioni del ministero della Difesa ma sapevano che quel che
facevano non era inviso ai vertici: non avrebbero altrimenti
scattato centinaia di foto.
Lo scontro fra europei e Casa Bianca avvenne su questi punti, quando
Bush teorizzò le guerre preventive e respinse il Tribunale penale
internazionale. L’Europa e le organizzazioni umanitarie furono
viste come ostacoli all’offensiva contro il terrore. La riluttanza
che esse esprimevano venne considerata alla stregua di una bellicosa
operazione legalista e antiamericana: un lawfare, dissero i
neoconservatori, contrapponendo le passioni legalitarie alla
passione di chi s’occupa del warfare, delle azioni di guerra.
Questa cultura giace in frantumi, sotto i nostri occhi. Non solo a
causa delle foto sulle torture, o perché a queste foto è stata
data un’eccessiva, preponderante importanza. Ma perché il
terrorismo ha risposto con un’intensificazione di violenza
inaudita, e politicamente soppesata. La decapitazione dell’ebreo
americano Nicholas Berg, diffusa su Internet, o i combattenti
palestinesi che brandiscono lembi di corpi israeliani a Gaza: sono
un avvertimento chiaro, lanciato dai terroristi. Nel politicamente
scorretto le democrazie saranno comunque perdenti: questo il
messaggio che è dietro la testa mozzata di Nicholas Berg. La
scorrettezza e l’indecenza sono qualcosa che si paga, in
democrazia: prima o poi si ribellano la stampa, i parlamentari.
Prima o poi si copre di ridicolo, chi come Bush elogia il «superbo
lavoro» svolto dal proprio ministro della Difesa, o chi come
Rumsfeld afferma che lui, da quando si parla di torture, «ha smesso
di leggere i giornali». I terroristi e i totalitari questi problemi
non li hanno. Non conoscono lo spazio democratico, dove cittadini e
dirigenti rimuginano i propri errori. Non devono fronteggiare
rivolte dell’opinione pubblica.
Rivaleggiare in orrore con l’avversario è enorme errore, e ogni
guerra d’immagini in questo campo è veleno per la democrazia. La
foto della testa mozzata non diminuisce lo scandalo delle torture,
ma le fa impallidire e le rende più inani ancora, confermando la
totale inefficacia d’un modo d’iniziare e condurre le guerre.
Non solo un uomo torturato dirà verità opinabili negli
interrogatori, ma la visione delle sevizie creerà più odio, più
antiamericanismo, più desiderio di veder riprodotte sulle prime
pagine dei nostri giornali le immagini di vendette sempre più
feroci. I primi a pagare saranno Israele e gli ebrei nel mondo, che
di Bush si fidavano e da Bush vengono trasformati in capri espiatori
d’una colossale sconfitta democratica.
Le umiliazioni cui son stati sottoposti i prigionieri iracheni sono
la materia di cui è fatta tale sconfitta. Esse spingono i
terroristi a mostrare che nelle gare di crudeltà spudoratamente
esibita saranno loro, i vincenti. Bush ha mentito sulle armi di
distruzione di massa, su Saddam e Al Qaeda, e infine sulla promessa
dei diritti dell’uomo. Facendo questo ha indebolito la base del
potere americano, mettendo in mostra incompetenze abissali. Questa
guerra delle idee l’intero occidente rischia di perderla, se non
ripensa la difesa della propria civiltà, la dipendenza dal petrolio
arabo, l’opportunità di un’alternanza a Washington. I danni
sono talmente grandi che non basta all’Europa la ricetta delle
sinistre: il semplice ritiro delle truppe dall’Iraq. Bisogna
forzare l’America a ripensare la lotta al terrore, e indurla a
difendere nel mondo quell’imperio della legge e della decenza che
i cultori del politicamente scorretto avevano creduto di poter
gettare nella spazzatura.
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testo integrale tratto da "La Stampa" -
16 maggio 2004 |