6. LA FEDE NEL DIO DELL’ALLEANZA E LO SCANDALO DELLA VIOLENZA

SALMI 58 e 82

 

                                                                                      Gregorio Battaglia

            Se poteva essere rassicurante sapere che Dio si è coinvolto in modo irrevocabile nella storia degli uomini, avendo sancito in Abramo un patto di Alleanza con l’umanità, le cose si complicano, quando veniamo direttamente a contatto con la cecità della malvagità umana e con la durezza della sua violenza. Di fronte a situazioni di estrema tragicità la fede nel Dio che agisce nella storia e che è fedele alle sue promesse si aspetterebbe di veder trionfare il bene sul male, ma non sempre le cose vanno in questa direzione.

            Il Salmo 14 si apre con il pensiero arrogante dello stolto che “dice nel suo cuore: Dio non c’è” (v 1), perché egli è ben convinto che Dio “non è qui”, ma ha ben altro a cui pensare che interessarsi alle vicende umane. La presunta impunità del male costituisce la vera pietra di inciampo per la fede, perché vede messa in questione la stessa fedeltà di Dio, la sua volontà di giustizia, la sua potenza. Se Dio è il garante della giustizia, si dovrebbe pur vedere che Egli non resta in silenzio e che interviene, perché torni a trionfare la giustizia.

            I Salmi 58 e 82 fanno esplicito riferimento alla spudoratezza del male, che pensa di poter contare sul mancato intervento da parte di Dio, che o è troppo debole per intervenire o ha altre cose più importanti a cui dedicarsi. In queste situazioni di estrema tentazione per la fede, quale dovrà essere allora l’atteggiamento del credente?

Il Salmo 58 e la sordità dei malvagi

            Il salmo 58 è qualificato come “salmo imprecatorio” e proprio a motivo della veemenza delle sue immagini nella nuova Liturgia delle Ore si è scelto di non farlo recitare per non creare imbarazzo o scandalo nell’orante. In effetti le immagini sono sanguigne, ma è questo un motivo sufficiente per impedire al fedele un contatto con questa “Parola di Dio”? Intanto prendiamo atto che ci stiamo accostando a carboni ardenti e che la comprensione di questi salmi resterà un problema aperto, finché anche noi non saremo passati per la stessa esperienza del salmista ed avremo imparato da lui a saper guardare in faccia il male ed allo stesso tempo a saper alzare lo sguardo verso il “Dio che fa giustizia”.

            Il salmo pone qualche problema da un punto di vista della traduzione a motivo della diversa vocalizzazione di una parola al v.2, per cui alcuni la intendono come “silenzio”, altri come “dèi” o “potenti”. In tal modo del v.2 potremo avere traduzioni diverse. La TOB traduce così: “quando parlate, la giustizia è muta”; la Società Biblica: “E’ proprio secondo giustizia che voi parlate o potenti?”; la C.E.I. ci presenta questo testo: “Rendete veramente giustizia o potenti”. La diversità delle traduzioni ci fa toccare con mano la fatica del rendere in un’altra cultura le parole che appartengono ad un altro popolo, ma allo stesso tempo l’accostamento delle varie traduzioni ci può essere di maggiore aiuto per meglio comprendere la parola che stiamo ascoltando e pregando.

            Il salmo 58 è chiaramente delimitato da un’inclusione formata da tre parole: giustizia -giusto; giudicare; dèi-Dio, che si ritrovano ai vv. 2 e 12. In questo modo l’inclusione serve a focalizzare il tema, che è costituito dalla giustizia esercitata verso le persone umane da coloro che sono definiti dèi o potenti. Poiché questa giustizia è piena di iniquità (vv 2-3), spetta a Dio venire a rendere giustizia agli innocenti e ai poveri (vv 11-12).

v. 2-3: “Rendete veramente giustizia o potenti, giudicate con rettitudine gli uomini? Voi tramate iniquità con il cuore...”: L’inizio del salmo è un deciso atto di accusa verso coloro che dovrebbero giudicare o governare il paese ed invece le cose si presentano in modo totalmente diverso. La gravità dell’accusa è ancora maggiore agli occhi dell’uomo biblico perché il giudice o il politico sono visti come i garanti dell’ordine comunitario e della redistribuzione dei beni voluta da Dio, per cui essi non compiono soltanto un crimine sociale, ma anche un sacrilegio nei confronti di JHWH. Coloro a cui è affidata l’amministrazione del diritto o l’esercizio del potere deformano la giustizia e pervertono il potere. A loro è attribuito il titolo di dèi, ma il loro modo di agire è esattamente l’opposto di quello di Dio (si tratta di un gioco di parole che è permesso dalla stessa lingua ebraica: elìm - elohim).

            Il giusto non può esimersi dal compito di discernere la presenza del male nella sua vita personale come nella vita sociale, soprattutto quando il male si camuffa di bene e si presenta come qualcosa di pienamente ragionevole. Il male, l’oppressione, lo sfruttamento ed ogni genere di violenza richiedono una piena apertura alla Volontà di Dio ed allo stesso tempo un affinamento del proprio giudizio critico, che permetta di chiamare le cose con il proprio nome. “Intervento umanitario”, “Operazione speranza”, “Lotta al terrorismo” sono un piccolo esempio di come spesso la violenza si possa nascondere dietro parole molto belle e che hanno la funzione di anestetizzare la nostra coscienza.

            Per Agostino, che sta commentando il salmo seguendo la Vulgata: “Se davvero voi parlate di giustizia, giudicate rettamente o figli degli uomini”, la voce che dice queste parole iniziali è soprattutto quella dell’affamato e ancor meglio quella del forestiero: “Viene al tuo paese un pellegrino bisognoso di un tetto e nessuno lo ospita. Costui si metterà a gridare che una tale città è disumana... Sente l’ingiustizia, perché lo tocca direttamente. Tu, invece, non la senti, forse, con altrettanta forza. (...) Colui che pronunzia le parole del nostro salmo ha guardato ed ha visto che tutti parlano di giustizia. Chi infatti ricuserebbe di parlare in favore della giustizia senza temere di essere preso per ingiusto?”.

            La malvagità a cui fa riferimento il salmo non è un semplice incidente di percorso, perché essa ha le sue radici nel cuore ed è tradotta in opere concrete dalle loro mani (v3). Il cuore corrotto, che è indice di una coscienza stravolta, ha la capacità di far apparire come bene o come necessario ciò che invece è tradimento della giustizia e perversione del potere.

vv 3-6: “Sono traviati i malvagi fin dal seno materno... Sono velenosi come il serpente, come vipera sorda...”: L’accusa ora si fa più circostanziata. L’orante è convinto che per giungere a questa capacità di malvagità occorra una vera e propria vocazione al peccato. “Sin dal grembo materno” è una frase che generalmente si usa per la vocazione profetica, mentre nel nostro caso è attribuita alla malvagità, che sembra così ben radicata sin dallo sbocciare di una vita. L’immagine del serpente ci riporta subito alle prime pagine della Genesi e di come l’umanità si sia lasciata subito affascinare dall’apparente seduzione della menzogna, bevendone quel veleno mortifero, che va ad intaccare tutte le relazioni umane, rendendole invivibili. Direbbe Paolo che questo è “l’uomo vecchio che si corrompe dietro alle sue passioni”: un uomo che deve accettare di morire, di rompere in modo deciso con una logica ed una mentalità fondate sulla menzogna, per aprirsi alla possibilità di rinascere a vita nuova.

vv 7-10: “Spezzagli o Dio i denti nella bocca...  L’aver preso atto che c’è nel mondo una malvagità che sembra incorreggibile potrebbe tradursi nella tentazione di rispondere al male con le stesse armi dei malvagi, ritenendo la violenza un passo obbligatorio per instaurare un regno di pace. Nel nostro caso l’orante non chiede a Dio la forza di vendicarsi personalmente di coloro che lo schiacciano e non chiede che il Signore consegni i nemici alla sua sete di rivincita. Il giusto non si prende vendetta con le sue mani, ma affida lo scandalo accecante dell’ingiustizia all’azione sapiente della giustizia di Dio. Nella lettera ai Romani Paolo così scrive: “Non fatevi giustizia da voi stessi, ma lasciate fare all’ira divina. (...) Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male” (Rm 12,17-20).

            Rimettere le cose di questo mondo “all’ira” di Dio non significa rifiuto di impegnarsi, ma esprime, invece, la profonda convinzione che nessuno di noi può arrogarsi il compito di essere il demiurgo del mondo, perché il vero protagonista della storia resta Dio: colui che porta a compimento la sua promessa. All’epifania del male che tutto devasta si chiede che venga opposta la teofania della giustizia che ribalta i potenti dal trono e innalza gli umili: di fronte al male operante nella storia l’invocazione gridata verso Dio resta la grande risorsa dei poveri, degli oppressi e degli stessi giusti perseguitati.

            La preghiera resta una componente efficace della storia, perché in essa l’orante se da una parte dà un giudizio puntuale sul male, dall’altra egli chiede a Dio di intervenire. Un salmo come il nostro ci impedisce di consegnarci alla rassegnazione ed all’indifferenza, ma allo stesso tempo pone un argine a quella violenza che potrebbe scaturire dal cuore umano. L’ira di Dio resta la garanzia più seria che la malvagità umana e la violenza strutturale non avranno la prevalenza sul progetto di Dio, ed il suo manifestarsi è segno rivelativo della serietà e della coerenza con cui Dio vuole trasformare il mondo per ricondurre ogni creatura alla sua bellezza primordiale.

vv 11-12: “Il giusto godrà nel vedere la vendetta....Gli uomini diranno: (...) C’è Dio che fa giustizia sulla terra”:  La giustizia di Dio che irrompe nella storia equilibrandola e correggendola è come una grande rivelazione che svela il vero volto di Dio. Si tratta di una giustizia molto diversa da quella degli uomini, perché se la sua ira ci parla della coerenza e della fedeltà con cui persegue il suo disegno, la misericordia ci riporta alle sue modalità operative, al modo di come concretamente interviene per trasformare, convertire e rinnovare la creazione.

            Il giusto può già fin d’ora contemplare la “vendetta” di Dio (= liberazione, vittoria, salvezza), perché “c’è un Dio che fa giustizia sulla terra” e non aspetta l’al di là. Il salmo così si oppone ad una spiritualità evanescente e alienante, mentre conduce l’orante ad impegnarsi già ora per la giustizia avviando il processo di trasformazione del mondo nel regno di Dio, ben sapendo che Lui ha inaugurato nel Figlio gli “ultimi tempi”, tempi della riconciliazione e della pace.

Il Salmo 82 ed il processo ai potenti ( elohim)

            Il salmo si apre con una frase che ci lascia un po’ perplessi: “Dio (Elohim) si alza nell’assemblea divina, giudica in mezzo agli dèi (elohim)”. Di quali dèi si sta parlando? Il salmista è come se ci stesse riportando la cronaca di un consiglio dei ministri che si celebra in cielo. Ma di fatto quegli “elohim” si possono intendere anche come “potenti”, come coloro, cioè, che hanno ricevuto un’investitura (per grazia di Dio) e sono chiamati ad esercitare un potere, che in un certo senso li pone su un piano molto alto. Con un linguaggio più aderente al nostro si può dire che la convocazione divina riguardi in modo particolare “giudici” e “politici”, chiamati ad esercitare un potere non in nome proprio, ma in quanto “ministri” di Dio (cf Sap 6,1-11; Sir 35, 17-23).

vv 2-4: “Fino a quando giudicherete iniquamente...”: Dio convoca “i potenti”, coloro che in certo qual modo esercitano un qualsiasi potere (politico, giudiziario, religioso, militare), e li attacca con un primo intervento accusando questi “esseri divini” di non aver giudicato o governato secondo il suo ordine e le sue disposizioni, ma lo hanno fatto alla maniera del falso e del malvagio, confermando nel loro potere i malvagi, invece di esautorare il male con i poteri loro conferiti. Egli si limita a fissare loro un certo tempo per ravvedersi ed intanto ricorda loro il compito che devono eseguire e che era già stato enucleato nel Salmo 72: essi devono pretendere il diritto per i deboli, far valere la giusta causa degli oppressi e salvare i perseguitati dall’arroganza dei persecutori.

            La giustizia di cui si parla ha come destinatari: il dal (= magro, sparuto, privo di beni), lo jatom (orfano = senza tutela), l’anì (= povero, incurvato), il ras (= indigente, disprezzato), l’ebjon (= colui che è solo desiderio).

v 5: “Non capiscono, non vogliono intendere...”:   Di fronte al richiamo profetico da parte di Dio i potenti disattendono anche questo monito del Signore. Essi non riescono a capire, non hanno discernimento, non comprendono l’essenza ed il proposito della parola di Dio. Essi non desistono da quell’idea aberrante per cui il cammino dell’umanità debba obbedire unicamente ai propri istinti ed al proprio modo di vedere. Ed è proprio quest’idea aberrante che li induce a comportarsi da tiranni, e che li fa camminare nella tenebra del loro delirio essi senza prestare alcuna attenzione alla parola di Dio.

            Come la sapienza dona e garantisca l’ordine cosmico, come la luce è simbolo di creazione e di vita, così l’ingiustizia che è stoltezza e tenebra costituisce un attacco sferrato al cosmo e alla vita, è una specie di avanzata del nulla e della morte (sheol). Le stesse fondamenta su cui si regge la terra sono messe in crisi dall’azione dell’uomo ingiusto.

vv 6-7: “Io ho detto: voi siete dèi.....Eppure morirete come ogni uomo, cadrete come tutti i potenti”: Ritorna a parlare il Signore, ma questa volta lo fa per dare la sentenza definitiva e si tratta davvero della caduta degli dèi. Viene svelata così attraverso questa sentenza la menzogna di chi si crede onnipotente ed immortale a motivo del suo incarico. Viene smascherata l’idolatria del potere e la presunzione di non dover rendere conto a nessuno; sono desacralizzate tutte le potenze politiche, economiche, giudiziarie, e religiose che governano il mondo. C’è l’oro venerato come idolo, ci sono leggi economiche intoccabili che strangolano i poveri, c’è l’informazione usata per plagiare le coscienze, ci sono le industrie delle armi che rendono fisiologica la guerra e c’è anche l’esercizio del potere nella Chiesa e la difesa dei principi a scapito del rispetto delle persone umane...

            Da notare, per inciso, che nel Vangelo di Giovanni Gesù cita il versetto 6 di questo salmo per concludere che è legittimo chiamare Figlio di Dio il Cristo. Allo stesso tempo questo versetto è stato usato nella tradizione cristiana per sostenere la divinizzazione del cristiano: “Il Verbo di Dio si è fatto uomo, perché noi fossimo fatti Dio....ed è in tutti che il Verbo ha posto la sua dimora!” Ma questo percorso di divinizzazione passa attraverso vie che non sono certamente quelle del delirio dell’onnipotenza.

v 8: “Sorgi Dio a giudicare la terra, perché a te appartengono tutte le genti”:    L’orante non si rivolge più a noi, ma adesso è tutto rivolto verso Dio perché “venga il suo regno”. Come nell’Apocalisse si passa dal piano celeste a quello terreno ed il libro si chiude con l’invocazione: Marana-tha, Vieni Signore, così qui il salmista chiede a Dio di giudicare lui stesso il regno della terra, dicendogli: Concludi Tu la storia dell’uomo caduta in preda alla follia e al peccato e inaugura Tu una storia vera.