7 – IL MISTERO DELLA SOFFERENZA NEI SALMI

Aurelio Antista

 

Uno dei massimi enigmi su cui l’uomo si è interrogato da sempre è il mistero del male, il perché della sofferenza in tutte le sue espressioni. Tale enigma diventa poi uno scandalo, una pietra d’inciampo per il credente che fa ancora più fatica degli altri nel conciliare il senso e il perché del soffrire, con l’adesione di fede nel Dio-buono della rivelazione cui sta a cuore la vita e la felicità piena di tutte le sue creature.

 Questo problema, questo scandalo non sfugge di certo alla Bibbia, Parola di Dio all’uomo, finalizzata a un progetto di Alleanza e di salvezza. Un grido corale s’innalza a Dio da moltissimi personaggi biblici che denunciano la sofferenza e l’ingiustizia, il male e la violenza gratuita: da Giobbe a Geremia, da Isaia a Gesù. E tutti chiedono : “Perché, Signore?”. Ma è soprattutto il libro dei salmi che testimonia tutto lo spessore di questo problema e lo esprime in preghiera e invocazione di aiuto rivolta a Dio dal popolo e dal singolo credente in situazione di prova e di pericolo.

Il riformatore Calvino diceva che i salmi sono come “un’anatomia dell’anima”. E infatti nessun aspetto della vita umana è lasciato fuori dalla preghiera salmica: gioia e lacrime, vita pubblica e intimità familiare, tragedie nazionali e piccole cose quotidiane sono tutte esperienze che convergono verso il tempio e verso Dio, come lode e ringraziamento. Ma poiché le esperienze di miseria e di sofferenza sono spesso più ricorrenti di quelle gioiose è stato notato che ben un terzo del Salterio è costituito da suppliche cioè da implorazioni che il credente rivolge a Dio quando vive un’esperienza di sofferenza, o di disagio. I salmisti testimoniano anche che il Dio dell’Alleanza, nonostante i suoi silenzi, sempre e comunque ascolta e accoglie il lamento del sofferente! “Tu vedi il dolore e l’affanno, tu lo guardi per prenderlo nelle tue mani” (Sal 10,14).

Lo spettro delle sofferenze umane che vediamo descritte nei salmi è molto ampio e comprende le malattie fisiche e le tragedie nazionali, l’incubo di un processo e la calunnia, l’ingiustizia trionfante presente nella società e le calamità naturali, la solitudine e il peccato. I salmisti non temono di rappresentare anche le paure più umane come quelle che nascono da una grave infezione come la lebbra : “Purulente e fetide sono le mie piaghe”, esclama il malato del salmo 38. Altre volte sono di scena persino la febbre e l’inappetenza :”Risanami, Signore, tremano tutte le mie ossa…Soffrivano e rifiutavano ogni nutrimento”(6, 3; 107, 8).

 Altre volte ancora gli oranti si presentano a Dio con tutta la loro carica passionale ed esplodono in imprecazioni esasperate, che scagliano contro tutti coloro che, nel mondo, compiono ingiustizie :”Spezza loro, o Signore, i denti in bocca. Si dissolvano come acqua che si disperde. Passino come aborto di donna che non vede il sole. Il giusto godrà nel vedere la vendetta, laverà i piedi nel sangue degli empi. Gli uomini allora diranno: “C’è un premio per il giusto, c’è un Dio che fa  giustizia sulla terra!”(Sal 58, 7-12). Questa corposità con cui si descrive la prova della sofferenza, è espressa nei salmi attraverso una serie infinita di immagini pittoresche che cercano di definire simbolicamente tutte le dimensioni del soffrire. E così, ad esempio, si va da scene di stampo bellico il cui il male è raffigurato come un assedio alla vita dell’orante o come un assalto di nemici agguerriti, a scene di caccia in cui l’uomo si sente come una preda braccata : “Se contro di me si accampa un esercito, il mio cuore non freme” (Sal 27, 3). “Il nemico m’insegua e mi raggiunga” (Sal 7, 6). “Hanno teso una rete ai miei piedi, mi hanno piegato, hanno scavato davanti a me una fossa e vi sono caduti”Sal 57, 7). Non mancano rappresentazioni mostruose o demoniache che delineano l’aspetto misterioso del male: “Spalancano contro di me la loro bocca come leone che sbrana e ruggisce”(Sal 22, 14); mentre non sono rare le denuncie del male sociale che attraverso l’ingiustizia provoca crisi e oppressioni (Sal 73; 82).

Nella tensione del suo dolore, l’orante cerca di spezzare il cerchio del suo piccolo orizzonte e, soprattutto, tenta di coinvolgere Dio attraverso l’eterna domanda che apparentemente sembra spegnersi nel vuoto e nel silenzio dei cieli: “Perché, Signore?…Fino a quando?” Ecco, ad esempio, la battuta iniziale della preghiera del Sal 13: “Fino a quando, Signore, mi dimenticherai? Per sempre? Fino a quando mi nasconderai il tuo volto? Fino a quando nel mio animo proverò affanni? Fino a quando su di me si ergerà il nemico?” Talora sembra    di essere davanti a un atto di accusa contro Dio per la sua assenza, per il suo silenzio:”Quanto tempo starai ancora a guardare, Signore?”(Sal 35, 17). Ancora più famoso il grido del salmo 22:”Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” Grido e lamento che Gesù ha fatto suo nella Croce. In un altro caso siamo perfino davanti ad un ultimatum lanciato contro Dio prima che tutto finisca: “Sono infelice e morente fin dall’infanzia, sono sfinito, oppresso dai tuoi terrori”; è il pianto disperato dell’orante del salmo 88, chiamato da uno studioso “il cantico dei cantici del pessimismo”.

 Eppure, è proprio affidando a Dio il proprio male che il salmista supera, vince la sua disperazione e si apre alla speranza. E’ importante sottolineare, infatti, che tutte le suppliche lasciano intravedere un futuro in cui Dio accoglie le istanze dell’orante, liberandolo dalle sue pene. Anche se l’orante vive ancora una situazione di oscurità, egli sente che Dio è gia all’opera per salvarlo. Infatti, è interessante notare che spesso in ebraico questo futuro sperato e atteso con ansia, è espresso al perfetto, cioè la forma verbale propria del ringraziamento. E’ come se Dio avesse già liberato l’orante e questi si sente già nel Tempio a sciogliere i suoi voti con gli inni di lode e di gioia all’amore salvifico di Dio.

A mò di sintesi possiamo dire che nei salmi il dolore dei credenti conserva tutta la sua connotazione di mistero scandaloso. Ma la preghiera apre al fedele una finestra per penetrare in questo mistero e gli da la certezza che a monte di ogni situazione, anche la più scandalosa e drammatica, c’è Dio che veglia con la sua presenza, una presenza che sa trarre il bene da una condizione di male estremo. I giusti e gli oranti del Salterio sono certi che, affidando a Dio lo scandalo accecante del loro soffrire, essi riusciranno a trasformare il loro rifiuto naturale e la ribellione in invocazione e speranza. Essi sanno che Dio può integrare in un progetto di salvezza anche il mostro della sofferenza, piegandolo perché il male approdi a una fine o almeno a un fine. Stupenda in questo senso è l’invocazione del salmo 56 :“ Il mio vagabondare, Signore, tu lo registri; le mie lacrime nell’otre tuo raccogli: non sono esse nel tuo libro?”(v.9). Le lacrime degli uomini sono più preziose agli occhi di Dio di ogni altra realtà, proprio come il beduino sa che l’acqua è la cosa più importante da conservare nell’otre. Nessuna lacrima, nessun passo disperato dell’uomo sarà lasciato cadere da Dio nella polvere del nulla. Anzi, il Signore raccoglierà tutti gli atti di sofferenza dell’umanità e li conserverà come perle nel suo scrigno eterno. E Gesù dirà: “Perfino i capelli del vostro capo sono contati; due passeri non si vendono per un soldo? Eppure nessuno di essi cadrà a terra senza che il Padre vostro lo voglia. Non abbiate dunque timore: voi valete più di molti passeri!”(Mt 10, 29-31).

 

B) VENGO MENO, RISANAMI,  SIGNORE  -  Salmo 6 -

 

Dopo aver dato uno sguardo all’sperienza della sofferenza così com’è espressa nei salmi e alla luce che su di essa spande la fede e la preghiera, proviamo ad accostare da vicino qualche salmo di lamento. Meditiamo il salmo 6, che è il primo del Salterio su questo tema. Nel rito sinagogale di alcune comunità ebraiche del centro Europa, il salmo 6 apre e chiude il culto comunitario quotidiano nella sinagoga, forse a motivo della forte carica emotiva che da esso traspare e per la consapevolezza del proprio peccato che esprime l’orante. Probabilmente per le stesse ragioni la tradizione cristiana lo ha inserito tra i 7 salmi penitenziali (6; 32; 38; 51; 102; 130; 143).

La struttura del salmo si compone di quattro brevi strofe: la prima: vv. 2-4; la seconda: vv. 5-6; la terza: vv. 7-8; la quarta: vv. 9-11.

Prima strofa: vv. 2-4 - “Signore, non punirmi nel tuo sdegno, non castigarmi nel tuo furore”. C’è un uomo gravemente malato che si apre alla preghiera invocando il nome del Signore. E’ il Nome rivelato a Mosè sul Sinai; quel Nome che poi è diventato familiare a tutto il popolo, sigillo di comunione tra il Dio dell’Alleanza e Israele. Prostrato nella sua malattia, il nostro orante non sa fare altro che aggrapparsi al Nome. Egli dichiara dinanzi al Signore che si sente punito: “Non punirmi nel tuo sdegno, non castigarmi…”. Qui affiora un aspetto della teologia ell’A.T. che ha elaborato un nesso quasi diretto tra malattia e peccato, tra disordine morale e sofferenza psico-fisica, sicché nella coscienza del popolo il confine che separa il malanno fisico dalla disfunzione morale, la malattia dal peccato è piuttosto labile e incerto, al punto da ritenere che se c’è una malattia c’è un peccato e viceversa. “Pietà di me Signore, vengo meno; risanami, Signore, tremano le mie ossa. L’anima mia è tutta sconvolta, ma tu, Signore, fino a quando?” Il salmista non ci rivela quale sia la colpa che giace sul fondo della sua coscienza, quella colpa che sarebbe la causa originaria della sua malattia. Al contrario, invece, descrive davanti al Signore il suo stato di prostrazione fisica; parla di ossa “tremanti”, parla di un “languore” a causa del quale si sente terribilmente prostrato. “L’anima mia” dice il v.4: “nefesh”, è il respiro. C’è in questo malato uno sconvolgimento del respiro. Al tremolio delle ossa, alla febbre che divora l’organismo, si aggiunge un impedimento a respirare e con quel filo di voce che gli rimane, egli dice al Signore: “Non ce la faccio più, vengo meno”. Interessante sottolineare che egli si aggrappa al Nome del Signore, e lo tira in ballo per questa sua situazione disperata con degli interrogativi provocatori: “Io mi trovo in queste condizioni, e tu, come mai non ti dai da fare? Fino a quando dovrò sopportare tutto questo? “Risanami” – diceva il malato al v. 3. E ora la strofa si conclude con questo interrogativo: “Tu, Signore, fino a quando?”.  Io sono tutto un gemito, e tu fino a quando non intervieni?

Seconda strofa: vv. 5-6 - Nella prima strofa il nostro orante malato si è presentato; ora rivolge a Dio la sua invocazione, la supplica vera e propria che già avava anticipato nel v. 3 con quell’imperativo: “Guariscimi, Signore”. Ora aggiunge: “Volgiti, Signore, a liberarmi, salvami per la tua misericordia. Nessuno tra i morti ti ricorda. Chi negli inferi canta le tue lodi?”. La richiesta del malato viene motivata in due modi. In primo luogo: “Per la tua misericordia, liberami”, ossia: “perché sei Tu, liberami”. La richiesta fa appello al Signore in quanto è “il Signore”. Per quello che tu sei, per quello che è il tuo mistero, per il tuo amore gratuito e pietoso, guariscimi. Secondo motivo: “Impegnati a liberarmi, Signore, perché io possa cantare la tua lode, infatti, se io muoio non ti potrò più lodare”. Questa è una concezione che ritorna più volte nei Salmi e altrove nell’A.T. : solo chi vive loda Dio; mentre chi muore non può più cantare la sua misericordia. Che cosa ricavi, quale vantaggio ottieni dalla mia morte? dice dunque il nostro malato al Signore. Al contrario, finché vivrò, canterò la tua lode: un buon motivo, questo, perché tu mi liberi dai miei tormenti.

Terza strofa : vv. 7-8 - Dopo una supplica così accorata e motivata, ci aspetteremmo il canto festoso del ringraziamento del malato finalmente guarito. E invece, troviamo ancora un lamento. Anzi, un lamento sempre più amaro e dolente: “Sono stremato dai lunghi lamenti; ogni notte inondo di lacrime il mio giaciglio, inondo di lacrime il mio letto. I miei occhi si consumano nel dolore, invecchiano fra tanti miei oppressori”. Il nostro malato piange, inonda di lacrime il suo letto. Un pianto che rivela l’esperienza della sconfitta che pervade ormai tutta la sua esistenza. Non è soltanto un ammalato, è uno sconfitto. Sconfitto non solo perché il suo fisico viene meno; ma sconfitto perché anche la sua supplica è disattesa dal Signore. Egli è un uomo che non guarisce, non si riprende, non recupera il suo fiato e non è in grado di cantare la lode del Signore. Il nostro malato lamenta che anche il pianto, le lacrime abbondanti che versa, lo stanno quasi accecando: “I miei occhi si consumano nel dolore”, e aggiunge: “Invecchio fra tanti miei oppressori”. La sua vista si è come annebbiata e lui non distingue più le persone, e così si sente attorniato da gente che non lo capisce, gente che forse lo deride e magari lo rifiuta. Si sente circondato da fantasmi, da ombre e non importa se le cose stiano realmente così; ciò che conta è che lui, nella sua sofferenza, così percepisce la realtà. E si sente imprigionato in una terribile solitudine. Si sente un uomo fallito, tutta la vita nella sua globalità ora gli appare “una vita sbagliata”, un’esistenza fallimentare. Non dimentichiamo che il nostro malato sta pregando. E la sua preghiera non è certo una filastrocca di giaculatorie pie e consolatorie. La sua preghiera consiste proprio nella presa di coscienza di una vita fallimentare e sterile che, ora nel pianto, egli è capace di presentare e offrire al Signore, per quella che è, così com’è.

Quarta strofa: vv. 9-11 - “Via da me voi tutti che fate il male”. A questo punto, invece di abbandonarsi in una disperazione senza ritorno, il nostro malato registra nel suo intimo una svolta: le ombre e i fantasmi si dileguano dal suo orizzonte, e dal cuore affiora una capacità, impensata per l’innanzi, di consegnarsi unicamente nelle mani del Dio dei Padri. Per questo può proclamare: “Il Signore ascolta la voce del mio pianto”, In verità, il nome dell’Onnipotente egli lo aveva pregato fin dall’inizio, ma adesso, nella strofa conclusiva, lo invoca ben tre volte: “Il Signore ascolta la voce del mio pianto, il Signore ascolta la mia supplica, il Signore accoglie la mia preghiera”. Per l’orante resta soltanto lui, l’unico interlocutore su cui sa di poter contare. Il Signore, l’unico da cui si sente accolto e amato così com’è. L’orante è sofferente, è gravemente sconvolto, la sua esistenza è segnata da una colpa antica, è isolato e in conflitto con il mondo circostante. Ma adesso, pur in una situazione come questa, egli sa che il suo sospiro e il suo dolore non cadono nel nulla, perché sono raccolti dal Signore. E tutto questo non perché il malato sta guarendo. Il salmo non dice questo. Ne perché i suoi guai sono finiti. Il salmo non dice questo. Ma perché egli è consapevole (la consapevolezza che nasce dalla fede) che tra lui e il Signore onnipotente è stabilita un’Alleanza indelebile, cioè una relazione d’intimità, di solidarietà tale per cui può dire: “Arrossiscano e tremino i miei nemici, confusi indietreggino all’istante” (v. 11).

Il nostro ammalato dichiara che i fantasmi si dileguano dal suo cuore e lui gia pregusta i frutti di una liberazione totalmente gratuita, opera e dono del Dio-Fedele. La sua salute è irrimediabilmente compromessa; la sua vita passata gli appare come una storia sbagliata e fallimentare; e nella situazione attuale nessuno è in grado di sostenerlo, di curarlo, di amarlo. Eppure questo orante si proclama un “uomo liberato”, perché nella sua preghiera di lamento ha incontrato il Signore che ha accolto il suo gemito e la sua povertà. Invocando il nome del Signore egli sperimenta una salvezza che va aldilà della guarigione del corpo.

 Se ci fate caso, il nostro salmo ci propone il nome del Signore otto volte. Non è casuale. Otto è una cifra messianica. Invocare il nome del Signore per otto volte è profezia messianica, è annuncio e anticipo di Gesù “Il Nome che salva”, colui che riscatta il nostro orante e insieme a lui tutti i falliti e i diseredati della storia.