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– IL MISTERO DELLA SOFFERENZA NEI SALMI Aurelio
Antista Uno dei massimi enigmi su cui l’uomo si è interrogato da sempre è il mistero del male, il perché della sofferenza in tutte le sue espressioni. Tale enigma diventa poi uno scandalo, una pietra d’inciampo per il credente che fa ancora più fatica degli altri nel conciliare il senso e il perché del soffrire, con l’adesione di fede nel Dio-buono della rivelazione cui sta a cuore la vita e la felicità piena di tutte le sue creature. Questo
problema, questo scandalo non sfugge di certo alla Bibbia, Parola di Dio
all’uomo, finalizzata a un progetto di Alleanza e di salvezza. Un grido
corale s’innalza a Dio da moltissimi personaggi biblici che denunciano
la sofferenza e l’ingiustizia, il male e la violenza gratuita: da Giobbe
a Geremia, da Isaia a Gesù. E tutti chiedono : “Perché, Signore?”.
Ma è soprattutto il libro dei salmi che testimonia tutto lo spessore di
questo problema e lo esprime in preghiera e invocazione di aiuto rivolta a
Dio dal popolo e dal singolo credente in situazione di prova e di
pericolo. Il
riformatore Calvino diceva che i salmi sono come “un’anatomia
dell’anima”. E infatti nessun aspetto della vita umana è lasciato
fuori dalla preghiera salmica: gioia e lacrime, vita pubblica e intimità
familiare, tragedie nazionali e piccole cose quotidiane sono tutte
esperienze che convergono verso il tempio e verso Dio, come lode e
ringraziamento. Ma poiché le esperienze di miseria e di sofferenza sono
spesso più ricorrenti di quelle gioiose è stato notato che ben un terzo
del Salterio è costituito da suppliche cioè da implorazioni che il
credente rivolge a Dio quando vive un’esperienza di sofferenza, o di
disagio. I salmisti testimoniano anche che il Dio dell’Alleanza,
nonostante i suoi silenzi, sempre e comunque ascolta e accoglie il lamento
del sofferente! “Tu vedi il dolore e l’affanno, tu lo guardi per
prenderlo nelle tue mani” (Sal 10,14). Lo
spettro delle sofferenze umane che vediamo descritte nei salmi è molto
ampio e comprende le malattie fisiche e le tragedie nazionali, l’incubo
di un processo e la calunnia, l’ingiustizia trionfante presente nella
società e le calamità naturali, la solitudine e il peccato. I salmisti
non temono di rappresentare anche le paure più umane come quelle che
nascono da una grave infezione come la lebbra : “Purulente e fetide sono
le mie piaghe”, esclama il malato del salmo 38. Altre volte sono di
scena persino la febbre e l’inappetenza :”Risanami, Signore, tremano
tutte le mie ossa…Soffrivano e rifiutavano ogni nutrimento”(6, 3; 107,
8). Altre
volte ancora gli oranti si presentano a Dio con tutta la loro carica
passionale ed esplodono in imprecazioni esasperate, che scagliano contro
tutti coloro che, nel mondo, compiono ingiustizie :”Spezza loro, o
Signore, i denti in bocca. Si dissolvano come acqua che si disperde.
Passino come aborto di donna che non vede il sole. Il giusto godrà nel
vedere la vendetta, laverà i piedi nel sangue degli empi. Gli uomini
allora diranno: “C’è un premio per il giusto, c’è un Dio che fa
giustizia sulla terra!”(Sal 58, 7-12). Questa corposità con cui
si descrive la prova della sofferenza, è espressa nei salmi attraverso
una serie infinita di immagini pittoresche che cercano di definire
simbolicamente tutte le dimensioni del soffrire. E così, ad esempio, si
va da scene di stampo bellico il cui il male è raffigurato come un
assedio alla vita dell’orante o come un assalto di nemici agguerriti, a
scene di caccia in cui l’uomo si sente come una preda braccata : “Se
contro di me si accampa un esercito, il mio cuore non freme” (Sal 27,
3). “Il nemico m’insegua e mi raggiunga” (Sal 7, 6). “Hanno teso
una rete ai miei piedi, mi hanno piegato, hanno scavato davanti a me una
fossa e vi sono caduti”Sal 57, 7). Non mancano rappresentazioni
mostruose o demoniache che delineano l’aspetto misterioso del male:
“Spalancano contro di me la loro bocca come leone che sbrana e
ruggisce”(Sal 22, 14); mentre non sono rare le denuncie del male sociale
che attraverso l’ingiustizia provoca crisi e oppressioni (Sal 73; 82). Nella
tensione del suo dolore, l’orante cerca di spezzare il cerchio del suo
piccolo orizzonte e, soprattutto, tenta di coinvolgere Dio attraverso
l’eterna domanda che apparentemente sembra spegnersi nel vuoto e nel
silenzio dei cieli: “Perché, Signore?…Fino a quando?” Ecco, ad
esempio, la battuta iniziale della preghiera del Sal 13: “Fino a quando,
Signore, mi dimenticherai? Per sempre? Fino a quando mi nasconderai il tuo
volto? Fino a quando nel mio animo proverò affanni? Fino a quando su di
me si ergerà il nemico?” Talora sembra
di essere davanti a un atto di accusa contro Dio per la sua
assenza, per il suo silenzio:”Quanto tempo starai ancora a guardare,
Signore?”(Sal 35, 17). Ancora più famoso il grido del salmo 22:”Dio
mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” Grido e lamento che Gesù ha
fatto suo nella Croce. In un altro caso siamo perfino davanti ad un
ultimatum lanciato contro Dio prima che tutto finisca: “Sono infelice e
morente fin dall’infanzia, sono sfinito, oppresso dai tuoi terrori”;
è il pianto disperato dell’orante del salmo 88, chiamato da uno
studioso “il cantico dei cantici del pessimismo”. Eppure,
è proprio affidando a Dio il proprio male che il salmista supera, vince
la sua disperazione e si apre alla speranza. E’ importante sottolineare,
infatti, che tutte le suppliche lasciano intravedere un futuro in cui Dio
accoglie le istanze dell’orante, liberandolo dalle sue pene. Anche se
l’orante vive ancora una situazione di oscurità, egli sente che Dio è
gia all’opera per salvarlo. Infatti, è interessante notare che spesso
in ebraico questo futuro sperato e atteso con ansia, è espresso al
perfetto, cioè la forma verbale propria del ringraziamento. E’ come se
Dio avesse già liberato l’orante e questi si sente già nel Tempio a
sciogliere i suoi voti con gli inni di lode e di gioia all’amore
salvifico di Dio. A
mò di sintesi possiamo dire che nei salmi il dolore dei credenti conserva
tutta la sua connotazione di mistero scandaloso. Ma la preghiera apre al
fedele una finestra per penetrare in questo mistero e gli da la certezza
che a monte di ogni situazione, anche la più scandalosa e drammatica,
c’è Dio che veglia con la sua presenza, una presenza che sa trarre il
bene da una condizione di male estremo. I giusti e gli oranti del Salterio
sono certi che, affidando a Dio lo scandalo accecante del loro soffrire,
essi riusciranno a trasformare il loro rifiuto naturale e la ribellione in
invocazione e speranza. Essi sanno che Dio può integrare in un progetto
di salvezza anche il mostro della sofferenza, piegandolo perché il male
approdi a una fine o almeno a un fine. Stupenda in questo senso è
l’invocazione del salmo 56 :“ Il mio vagabondare, Signore, tu lo
registri; le mie lacrime nell’otre tuo raccogli: non sono esse nel tuo
libro?”(v.9). Le lacrime degli uomini sono più preziose agli occhi di
Dio di ogni altra realtà, proprio come il beduino sa che l’acqua è la
cosa più importante da conservare nell’otre. Nessuna lacrima, nessun
passo disperato dell’uomo sarà lasciato cadere da Dio nella polvere del
nulla. Anzi, il Signore raccoglierà tutti gli atti di sofferenza
dell’umanità e li conserverà come perle nel suo scrigno eterno. E Gesù
dirà: “Perfino i capelli del vostro capo sono contati; due passeri non
si vendono per un soldo? Eppure nessuno di essi cadrà a terra senza che
il Padre vostro lo voglia. Non abbiate dunque timore: voi valete più di
molti passeri!”(Mt 10, 29-31). B) VENGO MENO, RISANAMI, SIGNORE - Salmo 6 -Dopo
aver dato uno sguardo all’sperienza della sofferenza così com’è
espressa nei salmi e alla luce che su di essa spande la fede e la
preghiera, proviamo ad accostare da vicino qualche salmo di lamento.
Meditiamo il salmo 6, che è il primo del Salterio su questo tema. Nel
rito sinagogale di alcune comunità ebraiche del centro Europa, il salmo 6
apre e chiude il culto comunitario quotidiano nella sinagoga, forse a
motivo della forte carica emotiva che da esso traspare e per la
consapevolezza del proprio peccato che esprime l’orante. Probabilmente
per le stesse ragioni la tradizione cristiana lo ha inserito tra i 7 salmi
penitenziali (6; 32; 38; 51; 102; 130; 143). La
struttura del salmo si compone di quattro brevi strofe: la prima: vv. 2-4;
la seconda: vv. 5-6; la terza: vv. 7-8; la quarta: vv. 9-11. Prima
strofa: vv. 2-4 - “Signore, non punirmi nel tuo sdegno, non castigarmi
nel tuo furore”. C’è un uomo gravemente malato che si apre alla
preghiera invocando il nome del Signore. E’ il Nome rivelato a Mosè sul
Sinai; quel Nome che poi è diventato familiare a tutto il popolo, sigillo
di comunione tra il Dio dell’Alleanza e Israele. Prostrato nella sua
malattia, il nostro orante non sa fare altro che aggrapparsi al Nome. Egli
dichiara dinanzi al Signore che si sente punito: “Non punirmi nel tuo
sdegno, non castigarmi…”. Qui affiora un aspetto della teologia ell’A.T.
che ha elaborato un nesso quasi diretto tra malattia e peccato, tra
disordine morale e sofferenza psico-fisica, sicché nella coscienza del
popolo il confine che separa il malanno fisico dalla disfunzione morale,
la malattia dal peccato è piuttosto labile e incerto, al punto da
ritenere che se c’è una malattia c’è un peccato e viceversa. “Pietà
di me Signore, vengo meno; risanami, Signore, tremano le mie ossa.
L’anima mia è tutta sconvolta, ma tu, Signore, fino a quando?” Il
salmista non ci rivela quale sia la colpa che giace sul fondo della sua
coscienza, quella colpa che sarebbe la causa originaria della sua
malattia. Al contrario, invece, descrive davanti al Signore il suo stato
di prostrazione fisica; parla di ossa “tremanti”, parla di un
“languore” a causa del quale si sente terribilmente prostrato.
“L’anima mia” dice il v.4: “nefesh”, è il respiro. C’è
in questo malato uno sconvolgimento del respiro. Al tremolio delle ossa,
alla febbre che divora l’organismo, si aggiunge un impedimento a
respirare e con quel filo di voce che gli rimane, egli dice al Signore:
“Non ce la faccio più, vengo meno”. Interessante sottolineare che
egli si aggrappa al Nome del Signore, e lo tira in ballo per questa sua
situazione disperata con degli interrogativi provocatori: “Io mi trovo
in queste condizioni, e tu, come mai non ti dai da fare? Fino a quando
dovrò sopportare tutto questo? “Risanami” – diceva il malato al v.
3. E ora la strofa si conclude con questo interrogativo: “Tu, Signore,
fino a quando?”. Io sono
tutto un gemito, e tu fino a quando non intervieni? Seconda
strofa: vv. 5-6 - Nella prima strofa il nostro orante malato si è
presentato; ora rivolge a Dio la sua invocazione, la supplica vera e
propria che già avava anticipato nel v. 3 con quell’imperativo:
“Guariscimi, Signore”. Ora aggiunge: “Volgiti, Signore, a liberarmi,
salvami per la tua misericordia. Nessuno tra i morti ti ricorda. Chi negli
inferi canta le tue lodi?”. La richiesta del malato viene motivata in
due modi. In primo luogo: “Per la tua misericordia, liberami”, ossia:
“perché sei Tu, liberami”. La richiesta fa appello al Signore in
quanto è “il Signore”. Per quello che tu sei, per quello che è il
tuo mistero, per il tuo amore gratuito e pietoso, guariscimi. Secondo
motivo: “Impegnati a liberarmi, Signore, perché io possa cantare la tua
lode, infatti, se io muoio non ti potrò più lodare”. Questa è una
concezione che ritorna più volte nei Salmi e altrove nell’A.T. : solo
chi vive loda Dio; mentre chi muore non può più cantare la sua
misericordia. Che cosa ricavi, quale vantaggio ottieni dalla mia morte?
dice dunque il nostro malato al Signore. Al contrario, finché vivrò,
canterò la tua lode: un buon motivo, questo, perché tu mi liberi dai
miei tormenti. Terza
strofa : vv. 7-8 - Dopo una supplica così accorata e motivata, ci
aspetteremmo il canto festoso del ringraziamento del malato finalmente
guarito. E invece, troviamo ancora un lamento. Anzi, un lamento sempre più
amaro e dolente: “Sono stremato dai lunghi lamenti; ogni notte inondo di
lacrime il mio giaciglio, inondo di lacrime il mio letto. I miei occhi si
consumano nel dolore, invecchiano fra tanti miei oppressori”. Il nostro
malato piange, inonda di lacrime il suo letto. Un pianto che rivela
l’esperienza della sconfitta che pervade ormai tutta la sua esistenza.
Non è soltanto un ammalato, è uno sconfitto. Sconfitto non solo perché
il suo fisico viene meno; ma sconfitto perché anche la sua supplica è
disattesa dal Signore. Egli è un uomo che non guarisce, non si riprende,
non recupera il suo fiato e non è in grado di cantare la lode del
Signore. Il nostro malato lamenta che anche il pianto, le lacrime
abbondanti che versa, lo stanno quasi accecando: “I miei occhi si
consumano nel dolore”, e aggiunge: “Invecchio fra tanti miei
oppressori”. La sua vista si è come annebbiata e lui non distingue più
le persone, e così si sente attorniato da gente che non lo capisce, gente
che forse lo deride e magari lo rifiuta. Si sente circondato da fantasmi,
da ombre e non importa se le cose stiano realmente così; ciò che conta
è che lui, nella sua sofferenza, così percepisce la realtà. E si sente
imprigionato in una terribile solitudine. Si sente un uomo fallito, tutta
la vita nella sua globalità ora gli appare “una vita sbagliata”,
un’esistenza fallimentare. Non dimentichiamo che il nostro malato sta
pregando. E la sua preghiera non è certo una filastrocca di giaculatorie
pie e consolatorie. La sua preghiera consiste proprio nella presa di
coscienza di una vita fallimentare e sterile che, ora nel pianto, egli è
capace di presentare e offrire al Signore, per quella che è, così com’è. Quarta
strofa: vv. 9-11 - “Via da me voi tutti che fate il male”. A questo
punto, invece di abbandonarsi in una disperazione senza ritorno, il nostro
malato registra nel suo intimo una svolta: le ombre e i fantasmi si
dileguano dal suo orizzonte, e dal cuore affiora una capacità, impensata
per l’innanzi, di consegnarsi unicamente nelle mani del Dio dei Padri.
Per questo può proclamare: “Il Signore ascolta la voce del mio
pianto”, In verità, il nome dell’Onnipotente egli lo aveva pregato
fin dall’inizio, ma adesso, nella strofa conclusiva, lo invoca ben tre
volte: “Il Signore ascolta la voce del mio pianto, il Signore ascolta la
mia supplica, il Signore accoglie la mia preghiera”. Per l’orante
resta soltanto lui, l’unico interlocutore su cui sa di poter contare. Il
Signore, l’unico da cui si sente accolto e amato così com’è.
L’orante è sofferente, è gravemente sconvolto, la sua esistenza è
segnata da una colpa antica, è isolato e in conflitto con il mondo
circostante. Ma adesso, pur in una situazione come questa, egli sa che il
suo sospiro e il suo dolore non cadono nel nulla, perché sono raccolti
dal Signore. E tutto questo non perché il malato sta guarendo. Il salmo
non dice questo. Ne perché i suoi guai sono finiti. Il salmo non dice
questo. Ma perché egli è consapevole (la consapevolezza che nasce dalla
fede) che tra lui e il Signore onnipotente è stabilita un’Alleanza
indelebile, cioè una relazione d’intimità, di solidarietà tale per
cui può dire: “Arrossiscano e tremino i miei nemici, confusi
indietreggino all’istante” (v. 11). Il
nostro ammalato dichiara che i fantasmi si dileguano dal suo cuore e lui
gia pregusta i frutti di una liberazione totalmente gratuita, opera e dono
del Dio-Fedele. La sua salute è irrimediabilmente compromessa; la sua
vita passata gli appare come una storia sbagliata e fallimentare; e nella
situazione attuale nessuno è in grado di sostenerlo, di curarlo, di
amarlo. Eppure questo orante si proclama un “uomo liberato”, perché
nella sua preghiera di lamento ha incontrato il Signore che ha accolto il
suo gemito e la sua povertà. Invocando il nome del Signore egli
sperimenta una salvezza che va aldilà della guarigione del corpo. Se
ci fate caso, il nostro salmo ci propone il nome del Signore otto volte.
Non è casuale. Otto è una cifra messianica. Invocare il nome del Signore
per otto volte è profezia messianica, è annuncio e anticipo di Gesù
“Il Nome che salva”, colui che riscatta il nostro orante e insieme a
lui tutti i falliti e i diseredati della storia.
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