GRANDI LAGHI


Ruanda, analisi di un massacro
Le responsabilità degli Stati uniti nella carneficina del 1994


di MARINELLA CORREGGIA


La lezione di una delle grandi tragedie dell'ultimo decennio - il genocidio del Ruanda - rischia di cadere dimenticata, insieme al ruolo che vi ha giocato l'amministrazione Usa. Altri casi sono meglio noti - ne scrive Nicholas Guyait nel suo libro Another American Century? (Zed Books, 2000) che analizza il ruolo degli Usa nel mondo durante gli anni `90, sotto il profilo economico, politico e militare. Le mai cessate anzi inasprite sanzioni economiche all'Iraq; le aggressioni militari vere e proprie come i bombardamenti su Baghdad nel dicembre 1998; l'intervento disastroso in Somalia («un esempio di quel che non dovrebbe essere un'operazione di peacekeeping»); le ambiguità durante la guerra in Bosnia; il ruolo determinante di Madeleine Albright nel provocare a Rambouillet la guerra del Kosovo.

Non è meno degno di attenzione il ruolo degli Stati uniti nella tragedia del Ruanda. Guyait spiega che la «sindrome somala», impadronitasi degli americani dopo la disastrosa operazione Restore Hope, «contribuì al successo del genocidio in Ruanda». Dall'interventismo messianico gli Usa erano passati a un «nuovo realismo»: intervenire solo se c'era di mezzo l'interesse nazionale.

Nel 1994, in Ruanda erano presenti i caschi blu dell'Onu - la missione Unamir - per monitorare un precedente accordo politico. L'Unamir aveva capito in tempo (ben prima dell'assassinio del presidente Haiyarimana) quel che stava per accadere, e il suo comandante Romeo Dallaire aveva chiesto un rinforzo di uomini per proteggere le popolazioni, nonché il permesso di disarmare le gang armate di machete e di oscurare gli incitamenti radiofonici all'assassinio. Ma il piccolo contingente Onu fu lasciato solo anche quando i massacri iniziarono, in aprile. Come mai?

Mentre il segretario generale dell'Onu Boutros Boutros-Ghali, destinato a non essere rieletto per volontà statunitense, cercava di convincere il Consiglio di sicurezza ad aumentare le forze Onu sul terreno ruandese, la segretario di stato Albright minacciava il veto Usa. Ricorda Guyait: «Per due settimane, nel mese di maggio, Albright ritardò con successo i piani dell'Onu di mandare subito 5.500 uomini, con il pretesto che la missione era vaga». Non lo era affatto: Dallaire e i suoi avevano le idee chiare e una presenza molto più numerosa sul terreno avrebbe salvato decine, forse centinaia di migliaia di vite. Infatti, gli sparuti 500 caschi blu presenti erano comunque riusciti a proteggere circa 30mila tutsi intorno a Kigali.

Non finisce qui nel giugno 1994, l'organizzazione per l'unità africana (Oua) aveva finalmente stanziato fondi per rimpolpare la missione Onu in Ruanda; ma l'invio fu ulteriormente ritardato perché gli Stati uniti, malgrado il loro enorme debito con l'Onu, avevano deciso di non prestare gratis i carri armati alle truppe africane, bensì di farne pagare l'affitto... così, solo a luglio l'Unamir fu rafforzata. Troppo tardi: nei 100 giorni di in azione internazionale guidati dagli Usa, il genocidio si era compiuto.

Conclude Guyait: «Riluttanti a rinunciare al proprio ruolo centrale negli affari internazionali, ma non disposti a impegnare truppe e denaro per le operazioni dell'Onu, gli Stati uniti atrofizzarono la causa del Peace keeping proprio mentre la situazione in Ruanda richiedeva una risposta flessibile e rapida».


testo integrale tratto da "Il Manifesto" - 24 agosto 2003