25 anni fa l'elezione di Luciani

L'impronta italiana allo zenit

di Andrea Riccardi

Venticinque anni fa veniva eletto l'ultimo Papa di una serie ininterrotta d'italiani che durava dal 1523: Albino Luciani. Il suo brevissimo pontificato ha lasciato un ineffabile ricordo di bontà. Ma Giovanni Paolo I fu diverso da Giovanni XXIII, il "Papa buono". Roncalli aveva una lunga conoscenza diretta del mondo dall'Oriente alla Francia, oltre a un forte radicamento nel cattolicesimo bergamasco e una notevole cultura storica. Pio XII e Paolo VI avevano percorso itinerari differenti ma caratterizzati da un impegnativo servizio alla Chiesa universale. La "bontà" pastorale di Albino Luciani era il frutto dell'esperienza migliore del clero italiano in cura d'anime. L'intera vita di Luciani, antecedente all'elezione, ruotava nell'ambito del pur variegato cattolicesimo veneto, dall'ultima guerra al post-Concilio.
Il giovane don Albino, prete diocesano, insegnante di seminario, responsabile di curia, era stimato a Belluno, tanto da divenire provicario nel 1947 e vicario generale nel 1954. Aveva discusso e pubblicato una tesi alla Gregoriana su Antonio Rosmini. Giovanni XXIII lo considerava uno dei migliori sacerdoti veneti e lo nominò a 46 anni vescovo di Vittorio Veneto. È Paolo VI, nel 1969, a chiamarlo al patriarcato di Venezia e a crearlo cardinale quattro anni dopo. Dalla fine degli anni Sessanta, Luciani viaggia e conosce meglio il cattolicesimo postconciliare, costellato di sprazzi vitali ma alle prese con una crisi profonda che ne inficiava l'identità. La sua elezione al pontificato romano era la scelta di una personalità caratterizzata dalla pastoralità, radicata nella spiritualità sacerdotale, serenamente aperta agli altri, lontana da posizioni ideologiche ed estranea alle polarizzazioni della Chiesa di allora.
Papa Luciani non si riteneva uomo di governo, come confida nel primo discorso ai cardinali. Chiede aiuto a chi lo ha eletto per sostenere «il peso, che il Signore… ha voluto porre sulle nostre fragili spalle». Il cardinale Poletti ricordava come il nuovo Papa gli domandasse di non far pesare su di lui i problemi di Roma. Il segretario di Stato Villot ha detto di Luciani: «…nella misura in cui passavano i giorni e prendeva coscienza della complessità delle questioni politiche, si inquietava ma senza perdere fiducia, restando prioritario l'aspetto pastorale della sua carica». Per lui al primo posto c'era - appunto - la pastoralità. Con naturalezza fece cadere la cerimonia un po' mondana dell'incoronazione (seppur non smise di usare il plurale maiestatico nei discorsi). Egli specchiava fatalmente la sua iniziativa con le grandi capacità di governo di Paolo VI e degli altri suoi predecessori: «Però - soggiungeva - sono al loro posto, devo cercare di servire la Chiesa». E qualche volta nei discorsi si scusava: «Ho parlato dimesso e me ne scuso».
Ma davvero per la Chiesa di quel tempo il problema principale era individuabile nelle esigenze del governo interno? Ogni stagione ecclesiale presenta precipue esigenze. Il breve pontificato di Giovanni Paolo I confermò, forse, nei cardinali la necessità di un indirizzo pastorale, ma anche di una profezia nuova. In questo senso egli aprì la scena che avrebbe visto poi dominare Karol Wojtyla, il quale portava con sé il sofferto vissuto di una Chiesa e di un popolo. Restava integra tuttavia la testimonianza di Luciani: quella di un'obbedienza profonda. Forse questo Papa parlava anche di sé, quando ricordava ai preti di Roma che una componente decisiva «della disciplina sacerdotale è l'amore del proprio posto»: «Lo so - aggiungeva - non è facile amare il posto e rimanervici…». E concludeva citando san Francesco di Sales: «Non c'è nessuna vocazione che non ab bia le sue noie, le sue amarezze, i suoi disgusti».

testo integrale tratto da "Avvenire" - 24 agosto 2003