L’UOMO
D’OGGI E LA PERDITA DELL’ORIZZONTE DI SALVEZZA:
SU
«MICROMEGA» UN INEDITO DI QUINZIO
Cristo non si è fermato sulla croce
di Sergio Quinzio
Se ci accontentiamo delle
apparenze, la «coscienza contemporanea» appare lontanissima dalla «sapienza
della croce». L'uomo del nostro tempo sembra tutto proiettato nella
ricerca del successo, della ricchezza, del piacere, secondo i modelli che
insistentemente, ad ogni ora di ogni giorno, gli vengono proposti dalla
televisione e dagli altri mass-media. La distanza sembra davvero
incolmabile nei confronti di quella che era la visione tradizionale della
vita, nella quale il senso della sofferenza e della croce si proiettava
nella coscienza degli uomini.
L'insegnamento cattolico, così come oggi viene impartito nelle nostre
chiese, nelle omelie domenicali, sembra lontano ormai da quel modello.
L'accento viene messo, di solito, su alti punti: l'impegno sociale, la
solidarietà e la condivisione fraterna. Non c'è dubbio che si tratti di
valori cristiani autentici, e che anzi in questo senso vadano a correggere
certi eccessi della mentalità tradizionale. Ma, forse perché un eccesso
spinge quasi fatalmente a una reazione nel senso dell'eccesso opposto, il
mistero della croce si è allontanato dal nostro orizzonte cristiano. Che
ne è dunque della croce nella coscienza dell'uomo contemporaneo?
Se distogliamo gli sguardi dalle immagini vistose della nostra società
consumistica, per rivolgerli allo strato più profondo dell'esperienza
umana del nostro tempo, allora scopriamo che la dimensione della croce non
soltanto non è assente, ma è addirittura dominante. Dietro
l'ostentazione del volto di una civiltà e di una società ricche e
soddisfatte, appare il volto della solitudine, dell'angoscia, anche della
disperazione contemporanee. La facciata del nostro mondo ci inganna. Se
troviamo la forza di guardare al di là, la realtà vera la vediamo molto
diversa da quello che la corsa consumistica vorrebbe farci credere. La
civiltà occidentale sembrava aver vinto e lasciato alle sue spalle, come
residui di un'antica barbarie, la violenza pubblica e privata: ci sembrava
che tutto fosse controllabile attraverso le istituzioni politiche
democratiche e lo sviluppo della scienza e della tecnica. Se ci guardiamo
onestamente intorno vediamo invece uno scenario opposto. Ritornano i
mostri che sembravano sconfitti: la miseria, le carestie, le epidemie, le
grandi e sconvolgenti emigrazioni di popoli.
Ma ci sono segni, più sottili e anche più significativi, della tragicità,
o almeno della drammaticità della nostra situazione. Penso soprattutto
alla rottura della continuità storica. Le generazioni si rinnovano senza
quasi più serbare ricordo del passato, e senza più la forza di una
speranza nel futuro. Manca sempre più, nelle nostre società, un
riferimento comune, un criterio, che almeno in via di massima possa
orientare sensatamente i nostri comportamenti. Non abbiamo più un'etica,
siamo intimamente incerti su tutto. Siamo forse liberi, ma come sapeva
Dostoevskij proprio la libertà può essere mortale.
Il mondo moderno nasce all'insegna di una fiducia nelle possibilità della
ragione umana, nelle capacità salvifiche dei nostri progetti. Anche se,
per la verità, non sono mancate, fin dall'inizio della modernità, voci
critiche, timori, sospetti. Ma fondamentalmente la cultura moderna, quella
di ieri che abbiamo immediatamente alle spalle, vedeva una strada tutta
ascendente. La fiducia nel progresso della storia e nelle conquiste delle
scienze e della tecnica, nella rivoluzione sociale, prometteva un futuro
roseo. Ma le attese si sono realizzate solo in parte, e non senza grandi
squilibri, contraddizioni, delusioni. Il posto delle fiduciose speranze
illuministiche e poi positivistiche che ne costituivano il denominatore
comune è stato preso da quelli che sono stati chiamati i «maestri del
sospetto».
È facile presentare questi «maestri del sospetto», che hanno influito
potentemente sulla nostra attuale cultura, come dei cattivi maestri che
hanno voluto seminare dubbi e angosce, cancellare ogni solida e garantita
certezza, ma sarebbe una semplificazione illecita, oltre che banale. Un
analogo atteggiamento di fondo, infatti, lo troviamo anche, e forse ancor
più nettamente, in testimoni che sono spiriti religiosi, o spiriti
inquieti alla ricerca della verità: una ricerca sincera e tuttavia
disperatamente delusa. Basta fare i nomi di Dostoevskij e di Kafka. Nel
solco della loro tragica esperienza si è mossa poi la grande letteratura
contemporanea, che ha rappresentato la condizione di infelicità, di
incertezza, di sprofondamento nel non senso e nel nulla dell'uomo
contemporaneo.
Questo sprofondamento della cultura contemporanea, e più in generale di
tanta parte d'esperienza esistenziale dell'uomo contemporaneo, ha un
rapporto con la croce di Cristo? E qual è allora questo rapporto? La mia
convinzione è che un rapporto ci sia e profondissimo, essenziale.
Certamente nessuna delle civiltà e delle culture che hanno preceduto il
Cristianesimo, o che gli sono comunque restate estranee, ha toccato come
la cultura contemporanea l'abisso dell'inconsistenza del nostro vivere,
della sconfitta dell'uomo, del suo vuoto, della sofferenza che nasce dal
senso del più completo abbandono. L'uomo contemporaneo è solo, patisce
sempre più il crollo di ogni sua speranza di pace, di verità, di
giustizia. Come non vedere che questo ripete - sia pure nell'infinita
distanza di ciò che è soltanto umano da ciò che, in Cristo, è divino -
il terribile grido di Gesù agonizzante sulla croce: «Dio mio, Dio mio,
perché mi hai abbandonato?». Un grido il cui significato viene eluso nel
momento in cui i cristiani, sia pure con le migliori intenzioni, non
vedono in esso altro che la recitazione da parte di Gesù crocefisso,
dell'inizio del Salmo 22.
La croce di Cristo ha segnato di sé, in maniera indelebile, tutta la
storia successiva, anche di coloro che l'hanno respinta e rifiutata. Il
suo grido di abbandonato vibra nel cuore della più radicale delusione
contemporanea, nata dal fallimento di tutte le speranze moderne. L'uomo
pagano accettava la sofferenza e la morte come qualcosa di fatale, come un
destino. L'uomo moderno, che ha alle sue spalle la grande speranza
cristiana, ha cercato, per questo, di pervenire a una condizione umana
redenta, salvata, liberata. Non è mai più uscito dal bisogno che la
rivelazione cristiana ha posto in lui, continua a volere qualcosa che
superi di gran lunga i penosi limiti della «natura umana». Anche se è
uscito dall'orizzonte della fede cristiana, l'uomo non è uscito
dall'orizzonte di quella speranza.
Non di rado lo stesso rifiuto della salvezza ne tradisce il bisogno. Per
la sua debolezza (e forse anche per ragioni che vanno al di là delle sue
intenzioni e responsabilità) l'uomo ha perso in gran parte la fede, ma ha
continuato a volere ciò che la fede gli aveva promesso. Ciò che non ha
più sperato dalla mano di Dio ha cercato di realizzarlo con le sue mani
attraverso la storia: e in questo consiste il processo di «secolarizzazione»
che è l'anima stessa della modernità. Oggi l'uomo patisce il fallimento
di questo tentativo nel quale, pure, è contenuta la grandezza
dell'esperienza moderna. Questa esperienza, per amari che siano i suoi
frutti, dobbiamo rispettarla, se vogliamo davvero vivere la nostra
condizione di uomini moderni, e credo che il vero modo di rispettarla
consista nel vederla attraverso il mistero della croce, che continua a
proiettare la sua luce e la sua ombra sulla storia. Se Cristo, come ha
detto Pascal, è in agonia fino alla fine del mondo, questa agonia la
vediamo rispecchiata nella vicenda degli uomini del nostro tempo.
Ma il Cristianesimo, si dirà, non è soltanto la croce, è anche la
resurrezione. Sì, ma la resurrezione viene dopo la croce e non c'è
nessuna resurrezione se non si fa l'esperienza della croce. Ma se
l'esperienza della croce, come ho cercato di dire, sta al centro della
coscienza contemporanea, quello che non è presente è, penso, la «sapienza
della croce»: quella sapienza che, diceva Paolo, è insieme paradosso e
divina follia. Il compito di testimoniarla è quello di cui dovrebbero
farsi carico i credenti. Proprio noi cristiani dovremmo avere l'umiltà di
riconoscere che abbiamo purtroppo fatto molto per far apparire falsa e
incredibile la nostra fede. Abbiamo spesso scandalizzato i nostri fratelli
mostrando un comportamento che contraddice vistosamente la fede che
dichiariamo di professare. Dovremmo avere la forza e il coraggio di
proporre la «sapienza della croce» come criterio - «paradossale» e «folle»
- per avvicinare e comprendere il senso di due millenni di storia che,
nata da matrice cristiana, sembra essere pervenuta allo scacco delle sue
aspettative. Potremo sperare di aiutare i nostri fratelli non credenti
porgendo loro, con umiltà, la nostra esperienza di cristiani, di uomini
cioè che dichiarano di credere nella morte espiatrice e nella
resurrezione dell'Uomo-Dio.
Mi chiedo se siamo in grado di fare questo, se davvero abbiamo noi la
sapienza della croce oppure se la stessa originaria «sapienza della croce»
così come soprattutto Paolo la propone nel Nuovo Testamento, non si sia
in noi cristiani irrigidita e inaridita nel corso dei secoli, fino ad
essere, anche in noi, sentita come remota, come qualcosa che la
resurrezione ha definitivamente superato e che non ha più nulla da dirci.
Ma mi permetto di esprimere la convinzione che la coscienza dell'uomo
contemporaneo abbia oggi bisogno di un'esplicita e radicale affermazione
della resurrezione al di là della croce. Le beatitudini evangeliche non
significano soltanto che i poveri, i miti, i perseguitati sono già beati
nella loro condizione di abbassamento e di sofferenza, ma che la loro
beatitudine è soprattutto la primizia, la caparra della consolazione che
è loro promessa nel regno di Dio. I miti sono detti beati perché
erediteranno la terra, gli umiliati perché saranno esaltati. Questo era
ben evidente alle origini cristiane. Lungo i secoli questa prospettiva che
lega strettamente la croce all'attesa della resurrezione si è andata
indebolendo, o almeno così mi pare. La perdita o l'affievolimento di
questo concreto orizzonte di salvezza, secondo la mia convinzione, è
l'ostacolo maggiore che oggi si frappone alla possibilità di parlare alla
cultura e all'uomo contemporaneo di sapienza della croce. Si sarà sempre
tentati di vedere nell'adesione alla croce una forma di devoto dolorismo
ascetico, come se la croce fosse in sé l'ultima meta dell'uomo, come se
l'uomo dovesse, e potesse, trovare in essa tutto il senso della sua vita.
Una vita che sarebbe così solo o soprattutto rinuncia. Credo che la
cultura e l'uomo contemporanei, che hanno alle spalle i secoli di questa
impostazione tradizionale, proprio perché sono realmente, concretamente
sprofondati nell'esperienza dell'abbandono, della croce come sconfitta,
abbiano bisogno di ricevere un messaggio cristiano più strettamente
aderente allo spirito delle origini. Che abbiano bisogno cioè di imparare
a leggere le loro sofferenze e insufficienze alla luce della promessa che
saranno tangibilmente consolate. Questa è, ai miei occhi, la «sapienza
della croce» che noi cristiani dovremmo avere la forza di annunciare ai
nostri fratelli, interpretando con loro il senso cristiano della croce
come speranza e strumento di salvezza.
testo integrale tratto da "La
Stampa" - 3 febbraio 2004