QUARANT’ANNI FA MONTINI
DIVENTAVA PAPA
Genio
italiano al timone della Chiesa
di
Andrea Riccardi
Sono passati quaranta anni
dall’elezione di Paolo VI. Per taluni sarebbe un papa dimenticato. I
venticinque anni, così intensi, trascorsi dalla sua morte possono far
apparire quel pontificato remoto per quelli che si sono affacciati negli
ultimi due decenni sulla scena del mondo. D’altro conto non è facile
semplificare la figura di questo Pontefice. E’ stato il Papa della
complessità, chiamato a governare la Chiesa in una stagione difficile,
una delle più delicate del Novecento. Si è trovato a concludere un
Concilio ecumenico originale come il Vaticano II. Il ’68 ha immesso nel
circuito dell’Occidente una specie di rivoluzione antropologica che
toccava la mentalità e tutte le istituzioni. La Chiesa per prima. Larga
parte del pontificato montiniano è stato tallonato da un movimento
d’irrequietezza che ha messo in luce una Chiesa al plurale, spesso anzi
conflittuale. In un simile panorama, con un’opinione pubblica vivace e
rissosa, non era facile governare. Forse si sono un po’ perse le reali
misure di quel tempo difficile per cui qualsiasi raffronto ci appare
improponibile.
Da un punto di vista geopolitico, i Paesi comunisti sembravano resistere
al logorio del tempo, mentre le Chiese di quelle regioni soffrivano la
persecuzione. Si colloca in questa cornice la decisione di aprire un
dialogo con i governi dell’Est, dialogo che sull’immediato dette
risultati relativi e non riuscì mai ad arrivare a Mosca: ars non moriendi,
la definì giustamente il Segretario di Stato, Villot. C’era poi la
decolonizzazione, che obbligava la Chiesa a misurarsi con le passioni
terzomondiali e a smarcarsi dai regimi coloniali, istituendo nuove
gerarchie locali. Non era poco per un cattolicesimo che, in Occidente, era
scosso da una progressiva secolarizzazione, dalla diffusione del
materialismo marxista e da un processo di soggettivizzazione della fede e
dell’idea di vita. Paolo VI governò in questa intricata situazione con
orientamenti che a taluni parvero esitanti, e che invece erano sal di e
cauti insieme, frutto del senso della complessità di un mondo dai tanti
attori in movimento. Il suo fu un genio di governo, tipicamente italiano,
realista ma misurato su un vasto disegno. Lo si capisce con il distacco
del tempo: "Paolo VI sarà valutato grande con il tempo", diceva
Congar.
Montini intendeva cambiare in profondità la vita della Chiesa. A partire
dalla liturgia. Un suo intimo amico, padre Manziana, una volta disse a chi
scrive: "lo avessero fatto lavorare in pace". Tradiva il senso
di fastidio per il chiassoso e tumultuoso clima di quegli anni, che
metteva in difficoltà l’attuazione del progetto riformatore a cui
Montini pensava da tempo. Negli anni Settanta, mentre molti denunciavano
la crisi della Chiesa, il Papa coglieva i segni della rinascita religiosa,
che allora sembravano illusori a fronte della dominante secolarizzazione.
Erano i primordi di quel processo, mostratosi prima nei mondi extraeuropei
e poi nel nostro continente. L’Anno Santo del 1975 era rivelatore di una
nuova e faticosa vitalità. Per Paolo VI non si doveva attendere, ma
accettare con coraggio la sfida del presente. Da molto era convinto che
questo coraggio fosse l’evangelizzazione. Egli si chiedeva anche
"se il Vangelo che proclamiamo appare lacerato da discussioni
dottrinali, da polarizzazioni ideologiche o da condanne reciproche tra
cristiani...", come parlarne agli altri? La via del futuro gli
appariva quella di una Chiesa tutta missionaria. Ma per camminare in
questo senso, bisognava governare la complessità del presente e porre le
premesse del domani. E’ il messaggio dell’Evangelii Nuntiandi (1975),
il testo di riferimento per un’intera epoca.