PER LA PRIMA VOLTA, IN 15 ANNI, L'UNIVERSITA' DI PRINCETON DISCUTE UN TABU' USA. ANALISI
Un campus contro la pena di morte


di Maurizio Viroli


HANNO coperto il prato davanti al Campus Center con delle bandierine color porpora e bianche per ricordare alla comunità di Princeton che era iniziata la settimana di sensibilizzazione sulla pena di morte negli Usa. È la prima volta in quindici anni che a Princeton si discute di pena di morte, e dire che non passa giorno senza un dibattito o un seminario sui più diversi problemi sociali, politici e culturali. Sulla pena di morte, invece, tutti preferiscono tacere, anche i più liberal, anche i più sensibili, anche chi non vuole escludere nessuno ed è anzi pronto ad aiutare chiunque soffra per l'oppressione o la discriminazione. Ogni volta che ho sollevato il problema con amici e colleghi la risposta è sempre stata la stessa: «Forse è sbagliato, sappiamo che il mondo civile ci condanna, ma com'è possibile fare senza pena di morte?».

Più ancora della politica imperiale, che in fondo si capisce anche se è diversa dalle politiche imperiali del passato, il vero mistero dell'America è il consenso tutt'ora assai vasto alla pena di morte. Non sorprende che la sostengano uomini come il Pubblico Ministero di Filadelfia che disegna un cerchio con la parola «DEAD» attorno alle foto, bene in vista nel suo ufficio, di coloro che ha fatto condannare alla pena capitale. Il desiderio di vendetta e l'ambizione politica (se sei duro con i criminali diventi facilmente governatore o congressman) spiegano la volontà di mandare a morte il maggior numero possibile di persone. Sorprende piuttosto il fatto che siano le persone buone e ragionevoli a ritenere la pena di morte giusta.

La risposta l'hanno data i partecipanti alla discussione su «What is Wrong With Death Penalty». In America, hanno spiegato gli oratori, la maggioranza dei cittadini pensa che la pena di morte sia in linea di principio giusta o perché vuole che il criminale sia punito in modo proporzionale al male che ha arrecato (ha preso una vita, deve pagare con la vita), o perché ritiene che la vittima e i suoi familiari debbano essere «risarciti» con la vita dell'omicida, o perché ritiene che senza pena di morte non ci può essere proporzione fra le pene («se non punisci l'omicidio con la pena di morte, come punisci il furto?»).

Consapevoli di questa realtà, le organizzazioni contro la pena di morte hanno scelto la strategia di spiegare ai loro compatrioti che anche ammettendo che la pena capitale sia giusta non è umanamente possibile comminarla in modo giusto ed evitare l'errore tragico e irreparabile di mandare a morte degli innocenti.

Per questa ragione i promotori della settimana di riflessione a Princeton (a fine aprile) hanno iniziato con «Live Man Talking», una commovente «lezione» di Ray Krone, l'uomo che ha passato dieci anni nel braccio della morte in Arizona ed è stato rilasciato sulla base del test del Dna che ha provato la sua innocenza. E' l'imputato numero 100 ad essere liberato dalla condanna a morte. Ora il numero è salito a 107, le poche bandierine bianche fra le 846 bandierine porpora sul prato che indicano il numero delle condanne a morte eseguite dal 1973 ad oggi.

Ray Krone è un uomo terribilmente comune, stempiato e con il codino. Parla in un'aula universitaria come se fosse al bar. Se ne sta con l'avambraccio destro appoggiato al podio ben lontano dal microfono e racconta una storia di agghiacciante semplicità. Non cerca l'enfasi retorica e proprio per questo le sue parole lasciano il segno: «La cameriera del bar dove andavo viene trovata morta dopo aver subito violenza sessuale; il Pubblico Ministero mi ritiene colpevole e vengo condannato a morte. Tutto qui. Una storia che può capitare a chiunque. Anch'io ero favorevole alla pena di morte: se nient'altro funziona allora ci vuole la pena di morte, mi dicevo. Fin quando non mi sono reso conto che tutti gli Stati possono commettere l'errore di uccidere un innocente, come stava per accadere a me».

Le sue parole fanno sentire la pena di morte terribilmente vicina. A confermare questa sensazione ci pensa il giorno dopo Karl Keys, l'avvocato che assiste i condannati a morte per un'organizzazione: «Se io, Pubblico Ministero, voglio che tu sia condannato a morte per un crimine qualsiasi posso farlo senza difficoltà, se tu non puoi permetterti un buon avvocato». Molti accusati di omicidio che rischiano la pena di morte sono assistiti da avvocati alle prime armi che fino al giorno prima si sono occupati soltanto di divorzi, che dormono durante il processo o si presentano ubriachi. E lo fanno malvolentieri perché guadagnano meno di un divorzio contestato. Risultato: niente indagini, niente verifiche delle prove a carico dell'accusato, nessuna ricerca di testi o prove a discolpa. Se il PM vuole rafforzare la sua fama di flagello dei criminali, la pena di morte è garantita.

Può aiutarti soltanto un'associazione come quella fondata da Kate Germond che cerca di salvare dalla condanna capitale i detenuti innocenti. Quando ritengono di essere di fronte ad un innocente condannato, i dirigenti dell'associazione esaminano gli atti processuali, cercano nuove prove, confutano quelle fornite dall'accusa, chiedono la revisione del processo.

Qualche segno di ripensamento si comincia a vedere. È vero che lo hanno lasciato pressoché isolato ed era alla fine della sua carriera politica, ma il governatore dell'Illinois, George Ryan, ha concesso il moratorium a tutti i detenuti nel braccio della morte perché ha capito che nel penoso stato in cui si trova il sistema giudiziario americano non esiste garanzia ragionevole contro gli errori nell'infliggere la pena capitale. Accanto alle organizzazioni religiose si battono contro la pena di morte anche nuove associazioni, fra le quali spicca quella dei parenti delle vittime di omicidi che hanno portato a condanne a morte.

Consapevoli che la lotta per abolire la pena di morte dai codici degli Stati americani non avrebbe possibiità di successo, le associazioni si battono ora per il moratorium, una sospensione temporanea (18 mesi) della pena di morte in attesa che una commissione federale e commissioni nei singoli stati valutino se è giusto conservare una pena che porta facilmente a errori irreparabili. I risultati sono fino ad ora incoraggianti, e se altri Stati seguissero l'esempio dell'Illinois si potrebbe sperare in una moratoria generale che aprirebbe, forse, la strada alla riforma.

Una domenica mattina ho visto Shawn Sindelar (sindelar@princeton.edu), lo studente che ha coordinato la settimana di iniziative, intento a raccogliere le bandierine porpora e bianche dal prato. Gli ho chiesto come mai fosse solo a fare quel lavoro. Mi ha risposto, che era solo anche ad organizzare la settimana di sensibilizzazione. Era contento, anche se pochi studenti, e pochissimi professori, hanno partecipato ai dibattiti. Anzi alcuni studenti, di notte, hanno divelto le bandierine sul prato e distrutto i poster che annunciavano le varie iniziative. Non era mai successo nulla di simile: neppure per le iniziative più controverse pro o contro la guerra; pro o contro Israele. Quando si parla di pena di morte negli Usa devi aspettarti l'indifferenza e l'odio, l'odio terribile di chi crede che tu voglia proteggere il criminale dal castigo. Quando in Europa manifesteremo contro la prossima condanna capitale ricordiamoci della nuova lotta per il moratorium, e cerchiamo di aiutare le organizzazioni che possono trovare buoni avvocati, se vogliamo davvero salvare degli innocenti.

viroli@princeton.edu