IRAQ  31/3/2003 0:50

L'ONU CHE VOGLIAMO

di Antonio Papisca

Peace/Justice Peace/Justice, Standard

Sviluppo umano e sicurezza globale possono essere garantite da un'Onu rafforzata e democratizzata. La società civile sta sostenendo da anni questo processo. Mentre i potenti della terra continuano ad affidarsi alla ragion di stato e alla guerra. Ecco la riflessione, autorevole ed articolata, del professor Antonio Papisca, direttore del Centro interpartimentale sui diritti della persona e dei popoli all'Università di Padova. La drammatica guerra che insanguina l'Iraq esige una riflessione di questo spessore per guardare al futuro con speranza.


Si parla con insistenza della centralità delle Nazioni Unite: alla buon’ora, vien da dire. Ma occorre usare lungimiranza e prudenza nell’appellarsi a questo principio. Lungimiranza, perché le Nazioni Unite costituiscono lo snodo ineludibile e irrinunciabile della governabilità nell’era della globalizzazione. Prudenza, perché l’Organizzazione delle Nazioni Unite non è ancora stata messa nella condizione di agire al riparo delle strumentalizzazioni dell'"usa e getta" e del "due pesi due misure".
Dieci anni fa, Nigrizia mi diede l’occasione di curare, per molti mesi, una rubrica intitolata "Onu dei Popoli". È appena il caso di ricordare che la Carta delle Nazioni Unite si apre con una solenne affermazione di soggettività democratica e pacifista: “Noi, Popoli delle Nazioni Unite, decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra…”.
Va anche ricordato che a partire dal 1995, con cadenza biennale e alla vigilia della marcia Perugia-Assisi, si riunisce l'Assemblea dell’Onu dei Popoli. Ancora prima, nel 1985, l’associazione Mani Tese organizzava a Firenze, a Palazzo Vecchio, un grande convegno internazionale dal quale scaturì il vibrante appello “Per una costituente mondiale per la pace e lo sviluppo”, dove puntuali sono i riferimenti all’Onu. Rileggendo oggi questo documento, non si può non rimanere impressionati dall’attualità del messaggio di "ordine mondiale democratico” in esso contenuto.
Il richiamo di questi fatti serve per sottolineare che le formazioni solidaristiche di società civile hanno anticipato – inascoltate - le classi governanti nell’affermare l’importanza delle Nazioni Unite. Ancora una volta, i potenti fautori della "ragion di stato" e della realpolitik sono contraddetti dalla "ragion di promozione umana".
La diagnosi dell’attuale stato di cose è fin troppo chiara. Il mondo è pervaso da miseria e da violenza armata dentro, e fra, gli stati. Nessun paese, nessuna società può dirsi sicura dalle incursioni, palesi o opache che siano, della criminalità transnazionale. Il terrorismo si presenta con una vasta gamma di modalità. L’ingiustizia economica e sociale va di pari passo con la dilagante insicurezza. Se grandi furono le attese suscitate dal crollo del Muro, ancor più pungenti sono le odierne delusioni e lo sconforto.
Il disarmo appare oggi, paradossalmente, come una chimera. Ancor più di prima, urge dunque controllare la produzione e il commercio delle armi, prevenire e gestire pacificamente i conflitti, far funzionare un sistema di sicurezza collettiva sotto legittima autorità sopranazionale, instaurare una nuova divisione internazionale del lavoro che rispetti le esigenze della giustizia sociale ed economica nel mondo.
L’Onu, istituzione multilaterale per antonomasia, è indispensabile per gestire l’ordine mondiale nel rispetto di “tutti i diritti umani per tutti” e per un’economia di giustizia. C’è bisogno di una istituzione mondiale in cui tutti gli stati, grandi e piccoli, siano rappresentati e tutti i popoli, anche i più lontani e diseredati, possano far sentire la loro voce. Quale istituzione può perseguire i molteplici e complessi obiettivi dello human development e della human security, se non una Onu messa nella condizione di farlo? E chi deve metterla in questa condizione se non gli stati che ne sono membri, in particolare i più potenti?
In occasione del “Millennium Forum” di società civile globale, svoltosi nel maggio 2000 a New York, nel Palazzo di Vetro, è risuonata la parola d’ordine: strengthening and democratising the United Nations, cioè rafforzare e democratizzare le Nazioni Unite.
Se si è sinceri nel proclamare oggi la centralità delle Nazioni Unite, occorre senza indugio perseguire il duplice obiettivo del potenziamento e della democratizzazione della massima organizzazione mondiale. Il dibattito sulla sua riforma, che pareva bene avviato in occasione del cinquantesimo anniversario dell'Onu, ha purtroppo dimostrato di non avere raggiunto quella massa critica sufficiente a far precipitare, una volta per tutte, la riforma.
Questo significa che devono mobilitarsi, ancor più massicciamente e puntualmente che nel passato, le forze di società civile globale, esercitando pressione sui governi e sulle classi politiche perché facciano funzionare, tempestivamente ed efficacemente, l’Onu.
Tra i tanti argomenti da usare nei confronti di chi ha responsabilità istituzionali, ce ne sono due particolarmente convincenti, uno di carattere giuridico, l’altro di carattere per così dire utilitarista. Il primo è che far funzionare bene le Nazioni Unite costituisce per gli stati "obbligo giuridico", non un optional: se non si rispetta la Carta delle Nazioni Unite, ci si pone in una condizione di persistente illegalità. In altre parole, il diritto internazionale è violato non soltanto quando si fa la guerra preventiva, ma anche quando non si alimenta l’Onu di supporto politico, di risorse finanziarie (in particolare, con puntuale versamento delle quote annuali), di personale.

Il secondo è che far funzionare bene le Nazioni Unite costa molto meno che procedere individualmente o a ranghi sparsi in un mondo che è sempre più interdipendente, disordinato e insicuro.
Insomma il calcolo costi-benefici pende a favore dell’Onu, è questione di razionalità economicistica, oltre che di ragionevolezza e di buon senso comune.
In quest’ottica, tra le cose che occorre fare con la massima urgenza perché l’Onu possa adempiere al suo alto mandato sono: la creazione di un corpo permanente di polizia civile e militare sotto la diretta autorità sopranazionale delle Nazioni Unite; il conferimento di maggiori poteri al Consiglio economico e sociale (Ecosoc) per quanto riguarda l’orientamento sociale dell’economia mondiale e la sorveglianza sulle organizzazioni internazionali economiche (insomma, l’Ecosoc come un Consiglio di sicurezza economica e sociale); il ricambio di buona parte dell’attuale personale Onu, burocratizzato e privo di tensione ideale, con personale adeguatamente formato e motivato (coi diritti umani nella testa e nel cuore); l’aumento delle risorse destinate agli organi specializzati in materia di diritti umani ed emergenze varie – a cominciare dall’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani – e ai programmi per lo sviluppo umano nei paesi ad economia povera; la dotazione della Corte penale internazionale di tutte le risorse, finanziarie e umane che le sono necessarie per bene avviare le proprie attività; l’allargamento della composizione del Consiglio di sicurezza, in funzione di una sua più adeguata maggiore rappresentatività.
Ma dare il pur indispensabile "più potere" all’Onu lasciando questa nelle mani esclusive degli stati, cioè dei vertici governativi e delle diplomazie, è rischioso. Ecco dunque la necessità di accompagnare il potenziamento con la democratizzazione, la quale, nei suoi termini essenziali, comporta: la creazione di un’Assemblea parlamentare delle Nazioni Unite che affianchi l’attuale Assemblea generale composta dagli stati membri: sarebbe l’embrione di un processo che porterebbe gradualmente alla istituzione di un vero e proprio Parlamento delle Nazioni Unite; per le materie attinenti ai diritti umani, allo sviluppo e all’ambiente, l’attribuzione di uno status di "co-decisionalità" a favore delle organizzazioni non governative (ong) che già godono dello status "consultivo" presso l’Ecosoc; l’estensione dell’esercizio di questo status consultivo anche presso il Consiglio di sicurezza.
Un’ultima riflessione, sempre in chiave strategica. La campagna per la democrazia internazionale comporta che si difendano le istituzioni internazionali multilaterali, quali "siti" essenziali per l'estensione della pratica democratica dalla città fino all’Onu. Se non ci sono le istituzioni, non c’è lo spazio, legittimo e trasparente, per l’esercizio di ruoli democratici.
Dietro la strategia della de-regulation economica lanciata da Reagan all’inizio degli anni ottanta si nascondeva la de-regulation istituzionale: in altri termini, l’insistenza nel togliere lacci e lacciuoli al libero gioco del mercato nascondeva la volontà di svincolarsi dai precetti del diritto e dalla trasparenza delle istituzioni. Un modo nostrano di cadere in questa trappola è consistito nel proclamare "più società, meno stato" (quanti ci sono cascati in buona fede…).
Questo disegno è oggi drammaticamente disvelato in tutta la sua dissennatezza (a ratione alienum, parafrasando la Pacem in terris): la cosiddetta nuova teoria della guerra preventiva – che è poi vecchia di millenni… - ben si spiega con la metafora del "giù la maschera". A tanta spudoratezza di governanti, la società civile deve rispondere proclamando, responsabilmente: "più società, più istituzioni, più democrazia, più trasparenza, più politiche sociali, più azioni positive".
Per quanto riguarda il futuro dell’Onu, diventa sempre più necessario porre, anche fisicamente, la sua sede al riparo dalle infiltrazioni e dalle pressioni che l’amministrazione Usa quotidianamente esercita. La sede a New York è a rischio di… sudditanza. Se l’amministrazione Usa non vuole una Onu super partes, democratica, efficiente ed efficace, se non vuole né la Corte penale internazionale né corpi permanenti di polizia delle Nazioni Unite né istituzioni economiche internazionali in funzione di giustizia sociale, se non vuole le ong tra i piedi alle grandi conferenze mondiali, se vuole soltanto un Fondo Monetario Internazionale capace di quell’accanimento terapeutico che si chiama "aggiustamento strutturale costi-quel-che-costi", se vuole un ordine mondiale gerarchico e belligeno informato al principio del si vis pacem para bellum, ebbene non si indugi oltre, si scuota la polvere dai calzari e si offra una nuova casa all’Onu, magari installando una parte significativa dei suoi uffici a Gerusalemme. L’Onu a Gerusalemme: pietra di contraddizione, ma anche pietra angolare di un nuovo ordine mondiale fondato sul rispetto della dignità umana e dei diritti fondamentali che a questa ineriscono.

 di Antonio Papisca,

direttore del Centro interpartimentale sui diritti della persona e dei popoli all'Università di Padova

 dal sito www.misna.org