Sviluppo
umano e sicurezza globale possono essere garantite da un'Onu
rafforzata e democratizzata. La società civile sta sostenendo da
anni questo processo. Mentre i potenti della terra continuano ad
affidarsi alla ragion di stato e alla guerra. Ecco la riflessione,
autorevole ed articolata, del professor Antonio Papisca, direttore
del Centro interpartimentale sui diritti della persona e dei popoli
all'Università di Padova. La drammatica guerra che insanguina
l'Iraq esige una riflessione di questo spessore per guardare al
futuro con speranza.
Si parla con insistenza della centralità delle Nazioni Unite: alla
buon’ora, vien da dire. Ma occorre usare lungimiranza e prudenza
nell’appellarsi a questo principio. Lungimiranza, perché le
Nazioni Unite costituiscono lo snodo ineludibile e irrinunciabile
della governabilità nell’era della globalizzazione. Prudenza,
perché l’Organizzazione delle Nazioni Unite non è ancora stata
messa nella condizione di agire al riparo delle strumentalizzazioni
dell'"usa e getta" e del "due pesi due misure".
Dieci anni fa, Nigrizia mi diede l’occasione di curare, per molti
mesi, una rubrica intitolata "Onu dei Popoli". È appena
il caso di ricordare che la Carta delle Nazioni Unite si apre con
una solenne affermazione di soggettività democratica e pacifista:
“Noi, Popoli delle Nazioni Unite, decisi a salvare le future
generazioni dal flagello della guerra…”.
Va anche ricordato che a partire dal 1995, con cadenza biennale e
alla vigilia della marcia Perugia-Assisi, si riunisce l'Assemblea
dell’Onu dei Popoli. Ancora prima, nel 1985, l’associazione Mani
Tese organizzava a Firenze, a Palazzo Vecchio, un grande convegno
internazionale dal quale scaturì il vibrante appello “Per una
costituente mondiale per la pace e lo sviluppo”, dove puntuali
sono i riferimenti all’Onu. Rileggendo oggi questo documento, non
si può non rimanere impressionati dall’attualità del messaggio
di "ordine mondiale democratico” in esso contenuto.
Il richiamo di questi fatti serve per sottolineare che le formazioni
solidaristiche di società civile hanno anticipato – inascoltate -
le classi governanti nell’affermare l’importanza delle Nazioni
Unite. Ancora una volta, i potenti fautori della "ragion di
stato" e della realpolitik sono contraddetti dalla "ragion
di promozione umana".
La diagnosi dell’attuale stato di cose è fin troppo chiara. Il
mondo è pervaso da miseria e da violenza armata dentro, e fra, gli
stati. Nessun paese, nessuna società può dirsi sicura dalle
incursioni, palesi o opache che siano, della criminalità
transnazionale. Il terrorismo si presenta con una vasta gamma di
modalità. L’ingiustizia economica e sociale va di pari passo con
la dilagante insicurezza. Se grandi furono le attese suscitate dal
crollo del Muro, ancor più pungenti sono le odierne delusioni e lo
sconforto.
Il disarmo appare oggi, paradossalmente, come una chimera. Ancor più
di prima, urge dunque controllare la produzione e il commercio delle
armi, prevenire e gestire pacificamente i conflitti, far funzionare
un sistema di sicurezza collettiva sotto legittima autorità
sopranazionale, instaurare una nuova divisione internazionale del
lavoro che rispetti le esigenze della giustizia sociale ed economica
nel mondo.
L’Onu, istituzione multilaterale per antonomasia, è
indispensabile per gestire l’ordine mondiale nel rispetto di
“tutti i diritti umani per tutti” e per un’economia di
giustizia. C’è bisogno di una istituzione mondiale in cui tutti
gli stati, grandi e piccoli, siano rappresentati e tutti i popoli,
anche i più lontani e diseredati, possano far sentire la loro voce.
Quale istituzione può perseguire i molteplici e complessi obiettivi
dello human development e della human security, se non una Onu messa
nella condizione di farlo? E chi deve metterla in questa condizione
se non gli stati che ne sono membri, in particolare i più potenti?
In occasione del “Millennium Forum” di società civile globale,
svoltosi nel maggio 2000 a New York, nel Palazzo di Vetro, è
risuonata la parola d’ordine: strengthening and democratising the
United Nations, cioè rafforzare e democratizzare le Nazioni Unite.
Se si è sinceri nel proclamare oggi la centralità delle Nazioni
Unite, occorre senza indugio perseguire il duplice obiettivo del
potenziamento e della democratizzazione della massima organizzazione
mondiale. Il dibattito sulla sua riforma, che pareva bene avviato in
occasione del cinquantesimo anniversario dell'Onu, ha purtroppo
dimostrato di non avere raggiunto quella massa critica sufficiente a
far precipitare, una volta per tutte, la riforma.
Questo significa che devono mobilitarsi, ancor più massicciamente e
puntualmente che nel passato, le forze di società civile globale,
esercitando pressione sui governi e sulle classi politiche perché
facciano funzionare, tempestivamente ed efficacemente, l’Onu.
Tra i tanti argomenti da usare nei confronti di chi ha responsabilità
istituzionali, ce ne sono due particolarmente convincenti, uno di
carattere giuridico, l’altro di carattere per così dire
utilitarista. Il primo è che far funzionare bene le Nazioni Unite
costituisce per gli stati "obbligo giuridico", non un
optional: se non si rispetta la Carta delle Nazioni Unite, ci si
pone in una condizione di persistente illegalità. In altre parole,
il diritto internazionale è violato non soltanto quando si fa la
guerra preventiva, ma anche quando non si alimenta l’Onu di
supporto politico, di risorse finanziarie (in particolare, con
puntuale versamento delle quote annuali), di personale.
Il
secondo è che far funzionare bene le Nazioni Unite costa molto meno
che procedere individualmente o a ranghi sparsi in un mondo che è
sempre più interdipendente, disordinato e insicuro.
Insomma il calcolo costi-benefici pende a favore dell’Onu, è
questione di razionalità economicistica, oltre che di
ragionevolezza e di buon senso comune.
In quest’ottica, tra le cose che occorre fare con la massima
urgenza perché l’Onu possa adempiere al suo alto mandato sono: la
creazione di un corpo permanente di polizia civile e militare sotto
la diretta autorità sopranazionale delle Nazioni Unite; il
conferimento di maggiori poteri al Consiglio economico e sociale (Ecosoc)
per quanto riguarda l’orientamento sociale dell’economia
mondiale e la sorveglianza sulle organizzazioni internazionali
economiche (insomma, l’Ecosoc come un Consiglio di sicurezza
economica e sociale); il ricambio di buona parte dell’attuale
personale Onu, burocratizzato e privo di tensione ideale, con
personale adeguatamente formato e motivato (coi diritti umani nella
testa e nel cuore); l’aumento delle risorse destinate agli organi
specializzati in materia di diritti umani ed emergenze varie – a
cominciare dall’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti
umani – e ai programmi per lo sviluppo umano nei paesi ad economia
povera; la dotazione della Corte penale internazionale di tutte le
risorse, finanziarie e umane che le sono necessarie per bene avviare
le proprie attività; l’allargamento della composizione del
Consiglio di sicurezza, in funzione di una sua più adeguata
maggiore rappresentatività.
Ma dare il pur indispensabile "più potere" all’Onu
lasciando questa nelle mani esclusive degli stati, cioè dei vertici
governativi e delle diplomazie, è rischioso. Ecco dunque la
necessità di accompagnare il potenziamento con la
democratizzazione, la quale, nei suoi termini essenziali, comporta:
la creazione di un’Assemblea parlamentare delle Nazioni Unite che
affianchi l’attuale Assemblea generale composta dagli stati
membri: sarebbe l’embrione di un processo che porterebbe
gradualmente alla istituzione di un vero e proprio Parlamento delle
Nazioni Unite; per le materie attinenti ai diritti umani, allo
sviluppo e all’ambiente, l’attribuzione di uno status di "co-decisionalità"
a favore delle organizzazioni non governative (ong) che già godono
dello status "consultivo" presso l’Ecosoc;
l’estensione dell’esercizio di questo status consultivo anche
presso il Consiglio di sicurezza.
Un’ultima riflessione, sempre in chiave strategica. La campagna
per la democrazia internazionale comporta che si difendano le
istituzioni internazionali multilaterali, quali "siti"
essenziali per l'estensione della pratica democratica dalla città
fino all’Onu. Se non ci sono le istituzioni, non c’è lo spazio,
legittimo e trasparente, per l’esercizio di ruoli democratici.
Dietro la strategia della de-regulation economica lanciata da Reagan
all’inizio degli anni ottanta si nascondeva la de-regulation
istituzionale: in altri termini, l’insistenza nel togliere lacci e
lacciuoli al libero gioco del mercato nascondeva la volontà di
svincolarsi dai precetti del diritto e dalla trasparenza delle
istituzioni. Un modo nostrano di cadere in questa trappola è
consistito nel proclamare "più società, meno stato"
(quanti ci sono cascati in buona fede…).
Questo disegno è oggi drammaticamente disvelato in tutta la sua
dissennatezza (a ratione alienum, parafrasando la Pacem in terris):
la cosiddetta nuova teoria della guerra preventiva – che è poi
vecchia di millenni… - ben si spiega con la metafora del "giù
la maschera". A tanta spudoratezza di governanti, la società
civile deve rispondere proclamando, responsabilmente: "più
società, più istituzioni, più democrazia, più trasparenza, più
politiche sociali, più azioni positive".
Per quanto riguarda il futuro dell’Onu, diventa sempre più
necessario porre, anche fisicamente, la sua sede al riparo dalle
infiltrazioni e dalle pressioni che l’amministrazione Usa
quotidianamente esercita. La sede a New York è a rischio di…
sudditanza. Se l’amministrazione Usa non vuole una Onu super
partes, democratica, efficiente ed efficace, se non vuole né la
Corte penale internazionale né corpi permanenti di polizia delle
Nazioni Unite né istituzioni economiche internazionali in funzione
di giustizia sociale, se non vuole le ong tra i piedi alle grandi
conferenze mondiali, se vuole soltanto un Fondo Monetario
Internazionale capace di quell’accanimento terapeutico che si
chiama "aggiustamento strutturale costi-quel-che-costi",
se vuole un ordine mondiale gerarchico e belligeno informato al
principio del si vis pacem para bellum, ebbene non si indugi oltre,
si scuota la polvere dai calzari e si offra una nuova casa all’Onu,
magari installando una parte significativa dei suoi uffici a
Gerusalemme. L’Onu a Gerusalemme: pietra di contraddizione, ma
anche pietra angolare di un nuovo ordine mondiale fondato sul
rispetto della dignità umana e dei diritti fondamentali che a
questa ineriscono.
di
Antonio Papisca,
direttore
del Centro interpartimentale sui diritti della persona e dei popoli
all'Università di Padova