LE VOCI, LE VERITA’
Così vive il Papa ammalato


di Vittorio Messori

 

Voci dissonanti e nervose si rincorrono nelle redazioni di tutto il mondo. Basta una frase «innocua» come quella del cardinale Ratzinger («Il Papa sta male, preghiamo per lui») per creare agitazione nei media. Eppure, sono evidenti a tutti, e da tempo, i limiti fisici crescenti di Giovanni Paolo II. Ed egli stesso ha più volte chiesto ai fedeli di pregare perché possa continuare a esercitare il suo ruolo di Successore di Pietro. Nulla di nuovo, dunque, nelle parole del Prefetto della Congregazione per la Fede. Eppure, quella frase è finita subito, e con evidenza, nei lanci delle agenzie internazionali. E’ possibile, allora, tracciare un quadro credibile della situazione? Fonti sicure ci permettono di stabilire almeno qualche punto preciso.
Innanzitutto: proprio su queste colonne, nel giugno del 2002, ci fu dato di confermare che - qualunque cosa fosse successa - Giovanni Paolo II non avrebbe rinunciato al suo incarico. La paternità non ammette dimissioni, il Papa non sarebbe mai divenuto un «pensionato». A 15 mesi di distanza, con un quadro clinico ancora più compromesso, la decisione di restare alla guida della Chiesa è ribadita come «irrevocabile»: un discorso chiuso, non ci saranno abbandoni, chi sostiene altrimenti sarà smentito dai fatti.
Quanto all’evoluzione della malattia, nell’entourage del Pontefice si è consapevoli che - malgrado la bravura dei sanitari - la medicina non è una scienza esatta. Dunque, non si condivide l’opinione di chi, basandosi sull’andamento consueto del Parkinson, ipotizza una serie di fasi successive prima di quella che è, purtroppo, la fase terminale. Qualcuno, ieri, ci ricordava il caso di Paolo VI, la cui malattia principale era un’artrosi, dolorosa ma non letale. Trasferitosi a Castelgandolfo, Papa Montini si era organizzato per un’estate di lavoro serrato.
Sopravvenne un’infezione alle vie urinarie che portò a un decesso improvviso e imprevisto, a 81 anni. Il quadro clinico di un ottantaquattrenne come Giovanni Paolo è talmente complesso - l’attentato, il tumore, la caduta - da non rendere possibile alcuna previsione. Questa, almeno, la convinzione di chi gli è più vicino. Lo stato d’animo è quello di una disponibilità alla Provvidenza che, per il credente, stabilisce tutto, sempre e comunque, per il meglio. A chi chiede, forse con qualche indiscrezione, quale sia oggi la sua vita privata, si oppone innanzitutto che questa quasi non esiste, sopravanzata di gran lunga da quella pubblica. Le ore del riposo, anche se non molte (ma, questo, per abitudine presa sin dalla giovinezza) sono fortunatamente buone. Malgrado il ben noto carattere forte e indipendente, Karol Wojtyla è un infermo docile e obbediente ai medici, almeno per quanto riguarda trattamenti e farmaci. Si sottrae invece alle raccomandazioni dei sanitari quando queste consistono in consigli per moderare un’attività che sarebbe sfibrante anche per un giovane.
In effetti (ed è un terzo punto sicuro) l’agenda papale non ha subito alcuna modifica: per stare anche solo a ottobre, sono confermate le tre canonizzazioni di domenica, il pellegrinaggio a Pompei, le liturgie per il quarto di secolo di pontificato, le udienze ad almeno tre capi di Stato e a una lunga serie di ministri degli esteri, di ambasciatori, di notabili di ogni tipo, tra i quali il capo della Chiesa anglicana. La sala stampa vaticana ha fatto rilevare che, decidendo di effettuare il Concistoro, il Papa stesso ha aggiunto a quella agenda già massacrante altri tre impegni particolarmente gravosi: la celebrazione del Concistoro stesso, la messa con i nuovi cardinali, l’incontro con loro e con le loro famiglie.
Altra cosa ribadita con forza è che non verrà presa alcuna misura per nascondere le sue difficoltà fisiche: la malattia, si dice, «non è certo ostentata, ma non è neppure celata». Si osserva che la stragrande maggioranza della sua attività è pubblica e tale resterà, senza pietismi ma anche senza ipocrisie. In fondo, è pure questa una grande novità, in una Chiesa dove, stando al linguaggio curiale, il Papa non era mai «malato»: al massimo, se proprio era necessario, si ammetteva che era «leggermente indisposto». Come l’atletico cinquantottenne assunto al soglio di Pietro non nascondeva una vigoria fisica che lo induceva a farsi costruire una piscina o a praticare puntate in incognito sulle montagne abruzzesi, così l’infermo ottantaquattrenne non cela i suoi limiti corporali. Una «trasparenza» che, del resto, ha contrassegnato ogni aspetto di questo pontificato.
Del quale non è ultimo elemento di nobiltà quest’ultima fase di una sofferenza accettata e trasfigurata, in nome del servizio a un Messia la cui croce sta sul suo petto, come su quello di ogni Papa.
Qualcuno, in Vaticano, avanzava ieri l’ipotesi che il Nobel per la pace sarà attribuito quest’anno proprio a Giovanni Paolo II. Checché ne sia di questa previsione, è già significativo che possa essere avanzata.
Nella prospettiva cattolica di un tempo, la figura del Pontefice era talmente al di fuori dei consueti parametri umani che un premio, seppure il più prestigioso, non solo non aggiungeva nulla ma rischiava anzi di scalfire l’unicità Papale. In ogni caso, era impensabile che pensasse di premiare il Vescovo di Roma un’assise come quella del Nobel, contrassegnata da protestantesimo, massoneria, laicismo. Ora, invece, l’impensabile è dato almeno come possibile. Un segno, certo, della grandezza di una figura che si è imposta ovunque come il maggiore riferimento morale. Ma un segno, anche, della concezione del suo ruolo, diversa da quella dei predecessori, di Giovanni Paolo II. In effetti, coloro che ipotizzano il Nobel pensano che, in caso di attribuzione, non sarebbe, seppur gentilmente, rifiutato bensì accettato. Tutto, anche un premio, rientra nella prospettiva di un Papa che vuol darsi «tutto a tutti», che sino all’ultimo vuol testimoniare solidarietà a tutto ciò che, nella vita dell’umanità, è lodevole e buono. Sino all’ultimo, anche in un vecchio corpo martoriato e tremante, che non è riuscito però a imprigionare uno spirito tuttora indomito.

 

Vittorio Messori  - messori@numerica.it

 testo integrale tratto da "Il Corriere della Sera" - 1 ottobre 2003