Charlie Chaplin dà
voce al sentimento della paternità e dell’adozione quando incontra un
bimbo sperduto. Mentre sconvolgente è la triste «Lettera al padre» di
Franz Kafka
Letteratura,
padri da buttare?
Alfabeto delle
relazioni/3. August Strindberg mette in scena il conflitto di una coppia
che ha una visione diversa sull’educazione, conflitto che diventa una
tragedia quando la madre insinua che il marito non è il vero genitore
della figlia
di
Vittorino Andreoli
August Strindberg, grande commediografo
svedese, nel 1887 pubblica e quindi rappresenta per la prima volta Il
padre (edito in Italia dall'Adelphi, 1978), una tragedia in tre atti.
Si tratta di un'opera di grande interesse, poiché mette in scena i
conflitti di una coppia - madre e padre di un'unica figlia - che ha una
visione diversa sull'educazione: la madre vuole tenere la figlia in casa e
farsi carico, in prima persona, della sua educazione, il padre invece
ritiene che a diciassette anni sia meglio mandarla in città, anche se
questo implica tenerla lontana dalla famiglia. Anzi, ritiene che una
simile scelta sia indispensabile per sottrarla all'influsso materno e di
quello della suocera che considera negativi, in particolare per
un'interferenza troppo pesante di tipo religioso, se non addirittura
magico. Lui, capitano di cavalleria, è invece un razionalista e oltre al
servizio nell'esercito di sua maestà, si dedica proficuamente allo studio
dei meteoriti, e dunque ad un'attività scientifica che lo porta,
attraverso questo tipo di reperti, al mondo fuori della terra, a scoprire
segni di vita in luoghi infinitamente lontani dal nostro pianeta.
Il tema è talmente comune da apparire di scarso interesse. I criteri
educativi tra padre e madre divergono in molti casi, e sono all'origine di
un'educazione a due sensi, che finisce puntualmente in una incoerenza tale
da far percepire alla prole che in fondo tutto è possibile, suggerendole
di giocare sulle divergenze tra mamma e papà e così, usando ora l'uno
ora l'altra, può ottenere ciò che vuole.
Il tema è quello dei principi dell'educazione: autoritari o permissivi?
Include pure questioni minori, come lo è concedere un rientro a notte
fonda o invece non oltre la mezzanotte, ed entra nel sistema della piccola
economia.
Laura (la madre): «Credi che una madre lasci che sua figlia se ne vada
fra cattiva gente, che le insegna come siano tutte stupidaggini quello che
sua madre le ha detto, così poi sua figlia la disprezza per tutta la
vita?».
Capitano (il padre): «Credi che un padre voglia permettere a donne
ignoranti e maniache di insegnare a sua figlia che era un ciarlatano?».
La crudele estromissione
Si tratta di un tema tipicamente familiare, ma che qui assume invece una
dimensione veramente paterna, poiché la moglie, non rinunciando ad avere
il dominio educativo sulla figlia, e ben sapendo della difficoltà di
ottenerlo da un marito che è certamente più forte, lo estromette, nel
modo più crudo e atroce, escludendolo dalla stessa paternità e dunque
insinuando che egli non abbia alcun potere sulla figlia, dal momento che
non è il vero padre, non è colui che l'ha messa al mondo.
Laura: «Perché chi è più vicino al figlio è la madre, da quando s'è
scoperto che in fondo nessuno può sapere chi è il padre del bambino…
Tu non lo puoi sapere se sei il padre di Berta?… Del resto come fai a
sapere se non ti sono stata infedele… Berta è mia, ma non tua figlia».
Allora non esistevano le prove del Dna, ma certo questo dubbio,
affermato con tanta decisione, cambia completamente lo scenario
psicologico e la sicurezza del padre come educatore, addirittura come
portatore di un diritto all'educazione. Il principio per cui: «I figli si
educano secondo la confessione del padre, a norma di legge» crolla, e lui
si trova di fronte a Berta, la figlia, come se d'un tratto non fosse
nessuno, e come se il forte amore che sente nei suoi confronti fosse
un'illusione, anzi un'illusione su cui ha condizionato la sua intera vita.
A quel punto il problema di cosa sia meglio per la figlia, se andare o no
a scuola in città, passa in secondo piano rispetto al dubbio di non
essere padre. Un dubbio, che la moglie ora nega di aver sollevato e lo
attribuisce a lui, una sorta di vaneggiamento, e perfino di insinuazione
che la vorrebbe una poco di buono. Insomma, inizia la via del tormento.
In scena va la perfidia femminile che qui si serve anche del medico
condotto , a cui narra della follia e della pericolosità del marito, che
si rendono evidenti quando ormai nella disperazione egli lancia un
candelabro acceso contro la moglie: un gesto che sa di pericolosità,
soprattutto è antieducativo, e mostra l'incapacità di lui non solo a
essere padre ma ad essere uomo e a vivere.
Sono pagine straordinariamente intense, piene di quella fonte
autobiografica a cui il commediografo attingeva abbondantemente. Negli
anni in cui scrive questa tragedia, Strinberg si sta separando dalla
moglie Siri, da cui aveva avuto quattro figli. L'epilogo tragico è ormai
tutto in scena.
«Mio marito è malato di mente», dice Laura al dottore, e riesce a
trasformare ogni sua azione in sintomo di follia a partire proprio dalle
ricerche sui meteoriti. Un folle che crede di capire al microscopio la
vita dell'universo e persino di trovare Dio.
Il problema non è più Berta ma il capitano, che finisce per implorare la
moglie a togliere quel dubbio distruggente rinunciando alle richieste
sulla figlia… Anzi non riesce nemmeno più a pronunciare questa parola.
«La figlia di mia moglie», è adesso la dizione corretta.
Capitano: «Liberami dai miei sospetti che io mi ritiro dalla lotta…
Se la bambina non è mia, diritti non ne ho né voglio averne su di lei…
Non lo vedi che sono inerme come un bambino, non lo senti che mi lamento
come davanti a una madre, non puoi dimenticare che sono un uomo, che sono
un soldato, uno che con un ordine può domare uomini e bestie; non chiedo
che pietà, come un malato, depongo le insegne del mio potere e domando
grazia per la mia vita». E piange.
E qui lo si vede ritornato bambino, infatti si lascia andare ai ricordi,
di cui uno tremendo: «Sì, fu proprio così; papà e mamma non volevano
assolutamente avermi, e perciò nacqui senza volontà». Rinuncia a essere
capitano, uomo e padre, e l'epilogo si lega ad una scena magnifica: la
vecchia tata, che gli ha fatto da madre e da balia ed è ancora in casa,
gli mette la camicia di forza. Nel frattempo ha un dialogo con Berta, la
figlia, l'ultimo disperato confronto, l'ultimo atto di paternità.
Capitano: «Berta, cara bambina adorata, tu sei mia figlia vero? Sì, sì,
non può essere altro. E' così! Il resto non era che pensieri malati, che
porta il vento come la peste e le febbri».
E la figlia risponde secca: «Voglio essere me stessa».
Con la camicia di forza, è ormai la negazione di tutto quanto è stato,
un nulla. E afferma, prima di morire, forse ucciso dalla moglie, forse dal
dolore: «Un uomo non ha figli, ne hanno solo le donne».
In un'associazione complicata e strana con l'opera di Strindberg, mi viene
alla mente Il Monello di Charlie Chaplin del 1921. Chaplin cammina
in una zona buia della città, di una qualsiasi città, tra cumuli di
immondezze che vengono buttate dalle finestre. Una città che mostra
povertà e degrado umano. È notte e in questo scenario disgustoso
incontra un bambino. Non lo ha mai visto, lo guarda come un pezzo di
quella immondezza, ma quell'oggetto gli suscita qualche cosa e accende il
sentimento, la memoria dei sentimenti, di quando anch'egli era bambino.
Guarda in alto per vedere se anch'egli sia stato buttato.
Il bambino, rapito, è abbandonato dai suoi stessi rapitori, come se non
valesse nulla, nemmeno agli occhi di chi fa il ladro di bambini: un pezzo
di latta e non certo di metallo prezioso.
Quel sentimento sconvolge Chaplin: dal fondo, dal sotterraneo dell'uomo,
sente il bisogno di essere padre, e quel bambino gli permetterà di
scoprirsi padre senza curarsi di chi lo abbia generato. Un incontro che si
fa poco a poco legame e lui diventa padre e il bambino figlio.
È un capolavoro dei sentimenti e di come nasca la paternità. Una storia
straordinaria della paternità, la storia naturale di un sentimento che
diventa legame padre-figlio. È la storia anche dell'adozione che non è
un'invenzione giuridica, ma una scoperta dei sentimenti, per cui bisogna
stare attenti a non burocratizzarla troppo se n on si vuole annegare quel
sentimento, quel bisogno di padre che Chaplin scopre subito ricordando che
era stato a sua volta un bambino con la voglia di un padre che infatti non
aveva.
È altrettanto straordinario che Chaplin, da vagabondo, dentro la miseria
e tra i rifiuti di questa società dell'inutile, scopra una grandezza
straordinaria, la paternità che non ha censo e non ha simboli economici.
Ogni bambino ha diritto di un padre e ogni uomo ha dentro di sé la voglia
di farsi padre, e non conta nulla aver generato quel bambino. Non si è
padre prima di vedere un bambino, o per lo meno tutti lo diventano davanti
a un bambino solo e nel buio della notte.
In questo perdermi dentro i ricordi del "padre di carta", il
padre nascosto nella letteratura, non potevo non rievocare «Lettera al
padre», di Franz Kafka (Confessioni e Diari, Mondadori Meridiani,
1972). Kafka la scrive nel 1919, quando ha ormai 36 anni e vivrà ancora
poco, morendo infatti nel 1924. È un testo straordinario e ancora pieno
di conflitto ed espressioni forti, talora di dure accuse, talora di voglia
di capire.
Le condizioni anagrafiche in cui nasce la «Lettera» stanno ad indicare
che il rapporto padre-figli è per sempre, e che la paternità è a sua
volta una dimensione per sempre. Nella memoria essa persiste anche quando
le figure non ci sono più, non camminano più su questa terra.
Nello stesso tempo mostra l'importanza di come un figlio vive il padre, di
come lo percepisce o lo subisce, al di là certo delle intenzioni paterne.
Eppure, malgrado sia durissima verso il padre, potremmo dire verso la
paternità, questa lettera mai indulge sulla colpa. «Ti prego di non
dimenticare mai che io non penso neanche lontanamente a una Tua colpa».
Al tempo di questa lettera la madre è morta, Franz ha tentato inutilmente
per due volte di maritarsi ma non ce l'ha fatta e, dunque, sta con il
padre, che pure non è riuscito a consumare le seconde nozze.
La storia e le emozioni
Ripercorriamo al cuni tratti di questo scritto, chiaro e sconvolgente allo
stesso tempo, ma soprattutto di un'incredibile attualità, a dimostrazione
che nella vicenda padre-figli ha importanza la storia, ma soprattutto i
sentimenti.
«Mio caro papà, non è molto che mi hai chiesto perché asserisco di
aver paura di Te. Come al solito non ho saputo rispondere, un po' per la
paura che Tu m'incuti, un po' perché, per motivare questa paura,
occorrono troppi particolari che non saprei cucire in un discorso».
«Tu eri troppo forte per me, tanto più che i miei fratelli morirono
bambini, le sorelle vennero molto più tardi e io dovetti sopportare da
solo il primo urto, per il quale ero di gran lunga troppo debole… Tu un
bambino lo sai trattare solo secondo il Tuo carattere, con la forza,
rumore e scoppi d'ira, e nel mio caso il sistema Ti pareva tanto più
opportuno in quanto Tu volevi fare di me un ragazzo forte e coraggioso…
Una volta di notte, io piagnucolavo chiedendo acqua, certo non per sete
ma, probabilmente, mezzo per infastidire e mezzo per divertirmi. Dopo
alcune minacce senza esito, Tu mi togliesti dal letto, mi portasti sul
ballatoio e per un poco mi lasciasti li in camicia davanti alla porta
chiusa… fui ridotto all'obbedienza, ma ne ricevetti un danno
interiore… Ancora per anni soffrii del tormentoso pensiero che mio
padre, il gigante, la suprema istanza, poteva venire quasi senza motivo
nel cuore della notte e portarmi sul ballatoio, e che io dunque per lui
ero meno che niente».
«La Tua sicurezza era così grande che potevi anche essere incoerente e
tuttavia non cessavi di aver ragione… Acquistasti ai miei occhi un alone
misterioso, come tutti i tiranni, il cui diritto si fonda sulla loro
persona, non sul pensiero… Mi è sempre stata incomprensibile la Tua
assoluta mancanza di sensibilità per la sofferenza e l'onta che sapevi
infliggermi con le Tue parole e i giudizi… Con le Tue parole seguitavi a
flagellarmi; di nessuno avevi compassione né durante la flagellazione né
dopo, d i fronte a Te uno era completamente indifeso… Non era permesso
rosicchiare le ossa, ma Tu lo facevi. L'aceto non si doveva assaggiare, ma
a Te era consentito… Bisognava badare di non lasciar cadere briciole sul
pavimento, ma sotto la Tua sedia ce n'era una infinità. A tavola si
doveva badare solo a nutrirsi, Tu invece Ti tagliavi e Ti pulivi le
unghie, temperavi matite, Ti frugavi nelle orecchie con uno
stuzzicadenti… Tu, l'uomo per me così autorevole, non Ti attenevi ai
precetti che mi imponevi».
«…A Te è costituzionalmente impossibile discutere di una cosa che non
approvi o che semplicemente non parte da Te».
«L'impossibilità di tranquilli scambi di idee ebbe un'altra conseguenza,
in fondo assai naturale: io disimparai a parlare… Sin da principio mi
vietasti la parola… io mi mettevo a parlare con impuntature e
balbettii… alla fine tacevo… Avevo paura di Te anche quando correvi
gridando intorno al tavolo per acchiapparmi». «Non ero mai sicuro di
nulla… anche la cosa a me più vicina, il mio corpo, mi sembrava incerto».
Franz Kafka ricorda, ed è un passo pieno di commozione, quando
fragile di salute, era tenuto a letto e in queste circostanze: «Entravi
in punta di piedi nella stanza di Ottla, dov'ero coricato, e rimanevi
sull'uscio allungando il collo per vedermi a letto e non volendo
disturbarmi Ti accontentavi di salutarmi con la mano. In quei momenti mi
buttavo sul cuscino e piangevo di felicità, e oggi ancora ne piango
scrivendone».
Sembra incredibile, ma anche i padri "oppressori" vogliono
bene ai figli. Fanno loro del male, volendo bene.
Lo scrittore da piccolo
Ed ecco il " bambino" scrittore: «Davanti a Te avevo perduto
la fiducia in me stesso, scambiandolo con uno sconfinato senso di colpa…
colpisti con la Tua avversione la mia attività letteraria e tutto ciò
che, a Te ignoto, vi si ricollegava… l'avversione che Tu naturalmente
provasti subito per i miei scritti, questa volta eccezionalmente mi era
gradita».
«…Con lo sc rivere e tutto ciò che vi si ricollega ho fatto alcuni
mediocri tentativi di indipendenza e di evasione, ottenendo scarsissimi
risultati… col Tuo esempio e con la Tua educazione Tu mi convincevi
della mia inettitudine».
E non possiamo che ricordare la sua morte, quella richiesta pressante
affinché venissero distrutti tutti i suoi scritti
testo
integrale tratto da "Avvenire" - 10 febbraio 2004