L'OUTSIDER di Nino Fasullo Sono passati dieci anni dalla tragica sera del 15 settembre 1993 in cui, nel territorio della sua parrocchia, da suoi parrocchiani, venne abbattuto padre Giuseppe Puglisi mentre rincasava al termine di una normale giornata di fatiche pastorali. Il suo volto, segnato dalla mitezza e dalla fermezza, è rimasto nel cuore di tutti, non solo a motivo della pietà suscitata dalla morte ma anche dalla stima di cui era circondato. Egli, del resto, aveva la capacità di immedesimarsi nei problemi della gente, specie dei più poveri, verso i quali si sentiva da prete, debitore. Non a caso in questi anni non é stato dimenticato in varie occasioni in molti hanno avuto per lui un pensiero di gratitudine e di rimpianto. Tra gli aspetti più rilevanti della sua testimonianza, due sono particolarmente significativi. Anzitutto, il martirio, il tratto non solo pi§ toccante ma anche il più alto ed emblematico della sua storia. Se si pensa che il martirio non s'improvvisa, né entra per caso nella partita finale di un uomo, si può immaginare di che tempra fosse la sua vita. Perciò va evitato il rischio, da un lato, di ridurlo entro i confini delle cerimonie religiose, dall'altro, di favorire troppo, in qualche modo, la tendenza a associare l'idea di martire con quella di santo e di altare in senso devozionale: anche per non mettere, noi, nella sua morte ciò da cui egli rifuggiva in vita: il trionfalismo. Il tratto più bello della sua figura è di non appartenere solo alla Chiesa ma, forse di più, alla città. Non si coglierebbe il senso profondo del suo sacrificio se lo si isolasse da quello degli altri e dei problemi di Palermo. E' il legame del parroco di Brancaccio con la città e le vittime di mafia che segna la qualità e la novità del suo martirio. Pertanto, le ragioni della morte di Puglisi non sono esclusive, sono le stesse per cui sono morti Mattarella, Falcone, Chinnici, Zucchetto, Borsellino. Sono morti tutti per la nostra libertà, per la giustizia e la pace della città. Paolo Borsellino affermo che Falcone é morto per amore della città. E questo é un motivo altamente cristiano. Ci vuole poco a ricordare la verità evangelica secondo cui chi muore in favore degli uomini, ai quali Dio tiene moltissimo, si può dire quanto a se stesso, muore, anche se non lo sa, per le cose insegnate da Gesù Cristo. Peraltro questo è anche l'insegnamento di Giovanni Paolo II enunciato nella canonizzazione di padre Massimiliano Kolbe. Chi dà la vita per i beni del Vangelo l'ha salvata. Anche Gesù è morto "propter nos homines" in obbedienza a Dio, la cui volontà è di riconoscere il diritto all'amore,alla giustizia, alla dignità, a partire dai più poveri, dai più piccoli, dai più esposti. Sotto questo rispetto, sembra impossibile trovare qualche differenza tra i morti giustiziati dalla mafia. Ma non é tanto questo che, adesso, si vuole sottolineare, quanto l'unità , il legame che stringe in una unica testimonianza ("in solidum" dalla quale nessuno può essere stralciato) la morte di tutti questi uomini massacrati da Cosa nostra. Ribadiamo: il segno di tutte questi morti è il servizio reso unitariamente, da credenti e non credenti, alla causa dell'uomo, che è la causa di Dio, ossia il diritto di tutti a vivere da uomini liberi, affrancati dal giogo mafioso. Un segno nuovo, questo, per i cattolici, riscoperto dal Concilio. Perciò padre Puglisi è l'esempio di una Chiesa nuova che vive nella città in umile compagnia degli altri portando il peso dei problemi di tutti. La prima cosa, quindi, cui un martire rinvia non é la festa, il premio o l'esaltazione, ma il contesto umano e sociale nel quale è rimasto stritolato. Brancaccio è sovraccarico di problemi sociali morali culturali , nei quali Puglisi era immerso fino al collo, nel senso che li sentiva suoi e per la cui soluzione spendeva tutto il suo tempo. Allora, padre Puglisi è martire nel senso che con la sua morte denuncia (mostra) la situazione di iniquità, ingiustizia, violenza e degrado in cui ha perso (gli é stata tolta, come a tanti altri) la vita. Non si può paassre oltre questo dato in cui é esplosa e si è consumata la sua tragedia. Si rischierebbe di scivolare sulla serietà del martirio dell'adamantino parroco di Brancaccio. Che non morì né per caso né per errore. La sua morte ebbe una (aberrante) logica, una spietata necessità. Il secondo aspetto che caratterizza la figura di padre Puglisi è quello del pastore-martire, geloso della vita e della libertà delle pecore. Tra noi, in Sicilia, in riferimento alla questione mafiosa, un avvenimento praticamente inedito. Questa é la verità: il parroco di Brancaccio fu ucciso perchè i mafiosi non sopportavano un prete poco tradizionale, indisponibile a riconoscere il loro potere, a ossequiarli, a temerli. Puglisi prete outsider , troppo libero, che faceva sul serio, che insegna ai giovani e ai bambini la libertà e l'autonomia. Per la tenuta del potere mafioso sul quartiere, un pericolo mortale, incontrollabile.(Ah, se tutti i preti fossero puglisiani! Allora sì che per la mafia sarebbe l'inizio di un lentissimo processo di declino). La pastorale di padre Puglisi, in quel contesto, rappresentava una svolta. E determinava una solitudine tanto più tragica quanto meno era nelle intenzioni di alcuno. Puglisi era solo, non perché qualcuno avesse architettato il suo isolamento, ma perchè alle spalle aveva un mondo cattolico impreparato e una Chiesa priva di una dottrina e di una "organica pastorale" che prendesse in considerazione e si misurasse con il problema mafioso. Sta di fatto che, anche se per ragioni storicamente comprensibili, la Chiesa siciliana non era riuscita a insegnare, né ai laici né ai preti, il gusto della libertà e della autonomia da Cosa nostra. Finora è stato così. In futuro forse no. Una speranza puglisiana.
testo integrale tratto da "La Repubblica - Palermo" - 13 settembre 2003.
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