Il
profeta del dialogo universale
Dall'Algeria al Vietnam, da
Cuba all'Africa, l'impegno di Giorgio La Pira a favore del disarmo
quale condizione necessaria per rendere impossibile l'«olocausto
atomico».
Nel
centenario della sua nascita, l'eredità dell'opera di un
intellettuale cattolico che credeva nella possibilità di una «liberazione»
dell'umanità rintracciabile in un disegno profetico della storia.
Un mondo fondato su principi universali e sulla coesistenza, senza
esclusioni, di civiltà e culture diverse
di GIAMPAOLO CALCHI
NOVATI
Il contesto in cui discettò e operò Giorgio
La Pira era quello della guerra fredda e dei conflitti locali
dominati dagli schieramenti della guerra fredda. Tutti i suoi
ragionamenti, le sue analisi, i suoi appelli, oltre naturalmente
alle sue iniziative, si spiegano solo in questo quadro. A distanza
di tempo, sarebbe difficile e futile adattare la sua azione e il
suo pensiero alla situazione nuova che si è andata sviluppando
dopo la sua morte, avvenuta nel 1977, per i fatti del 1989 ma non
solo. Piuttosto che cercare di capire se La Pira ha anticipato gli
avvenimenti, è più funzionale allora capire La Pira così come
è stato sullo sfondo dei problemi del suo tempo. Per La Pira - di
cui quest'anno ricorre il centenario della nascita - contavano
soprattutto i principi. I suoi termini di riferimento erano le
grandi svolte della storia recente: Auschwitz, Yalta, Hiroshima,
Bandung. Il mondo aveva subito profonde trasformazioni per effetto
della guerra. Prima l'era atomica. Poi l'era spaziale. Non c'erano
più confini geografici e non c'erano più limiti alle capacità
di distruzione dell'uomo sull'uomo o l'ambiente. L'avvento del
Terzo mondo aveva ampliato al di là del limes
convenzionale gli spazi della politica e della cultura.
Tutt'insieme questi processi avevano aumentato, non ridotto, il
ruolo delle grandi potenze. La Pira non si illudeva che ne fosse
derivato un livellamento. Se mai le grandi potenze avevano più
mezzi e quindi più responsabilità. Nonostante le aberrazioni di
un sistema ingiusto anche per colpa delle superpotenze, la stessa
autorità morale di Stati Uniti e Unione Sovietica era
oggettivamente cresciuta. Usa e Urss, insieme alla Chiesa
cattolica, formavano il trittico che si sarebbe identificato piu
precisamente nei grandi protagonisti della svolta maturata tra gli
anni `50 e gli anni `60: Kennedy, Krusciov e Giovanni XXIII (il
Concilio: La Pira predata certe intuizioni a un discorso di Pio
XII del 1958). L'importanza dei tre leaders derivava dalla
loro consapevolezza di essere i garanti di un'epoca nuova.
Persistevano ostacoli molteplici ma La Pira confidava che quell'epoca
nuova non avrebbe più conosciuto inversioni di tendenza fatali.
Egli superava del resto il campo della politica nella sua
accezione corrente perché - in un misto di utopismo e realismo -
dietro gli uomini e i governi intravedeva un disegno profetico di
cui gli individui e le forze politiche erano strumenti attivi.
Quasi alla rovescia, le sue iniziative di maggior rilievo, come i
Convegni sul Mediterraneo che convocava a Firenze, si svolgevano
su un piano temporale e storico e insieme su un piano atemporale e
religoso.
«Il genere umano è entrato in una fase totalmente nuova e di
dimensioni sconfinate: stagione nella quale, malgrado immense
resistenze, si sanano irresistibilmente le fratture che avevano
spezzato nei secoli scorsi l'unità della Chiesa e del mondo».
Alla base di tanto ottimismo La Pira poneva l'impossibilità della
guerra. Culture diverse hanno elaborato questa idea, con una
sostanziale convergenza fra i contributi liberali, marxisti e
cristiani. Accanto ai motivi storici di quella specie di tabù
pesano i motivi teologici e teleologici (in senso teilhardiano).
Con l'albero dell'unità dei popoli si sarebbe placata la collera
dei poveri, degli oppressi, e sarebbe rifiorito «inevitabilmente»
l'ulivo della pace. Fra i due livelli non c'erano iati o
contrasti. «La visione profetica si trascrive nel tempo e diviene
la realtà storica del tempo nostro; diviene la caratteristica
essenziale, costitutiva, di questa nuova epoca, di questa
singolare nuova stagione storica del mondo».
Al duplice ordine di principi egli subordinava l'impegno su temi
quali il disarmo, la distensione, la soluzione pacifica delle
controversie. La coesistenza aveva origine nel pensiero di Gandhi.
Il disarmo doveva salvare il pianeta dalla sua stessa fine. Un
segno non dubbio era l'improvviso scioglimento, proprio sull'orlo
dell'abisso, del braccio di ferro russo-americano per i missili a
Cuba.
La divisione all'origine della guerra fredda era tragicamente vera
ma in parte era artificiosa. Est e Ovest facevano entrambi parte
dell'Occidente. E per definire l'Occidente, così come era stato e
doveva essere, La Pira risaliva indietro fino a Israele, con una
visione che potrebbe sembrare eurocentrica o israelocentrica
(anche Marx era ebreo) se in ultima analisi non fosse stata una
concezione cristocentrica. Dallo stesso filone giudaico-cristiano
era venuto l'Illuminsimo, con suoi limiti ma con inedite
prospettive di libertà. Il pericolo da evitare a ogni costo era
di discriminare alcune componenti dell'umanità. Lo storico
inglese Eric Hobsbawm ha affermato che il pericolo sarebbe oggi di
cedere «alla tentazione di isolare la storia di una parte
dell'umanità - quella che lo storico si sceglie o in cui nasce -
dal suo contesto più ampio». Nella cerimonia per la concessione
della cittadinanza onoraria a U Thant, la funzione insostituibile
delle Nazioni Unite fu sottolineata e argomentata da La Pira, che
non poteva prevedere il declino dell'Onu e gli abusi che sarebbero
stati commessi in suo nome.
L'equilibrio del terrore era un male e La Pira auspicava sviluppi
tali da «liberare» gli uomini dal ricatto dell'olocausto
nucleare. Citava spesso a questo proposito i filosofi Gunther
Anders e Bertrand Russell. La distruzione mutua assicurata - Mad,
pazzo, nell'acronimo inglese - era agli antipodi del suo progetto.
La difesa di una certa stabilità all'ombra della bomba non era un
buon motivo per accettare inerti lo status quo. Il dialogo,
unito alle restrizioni e autorestrizioni, doveva preparare la
strada alla sicurezza della coscienza e non a quella della paura.
Nei suoi scritti La Pira non entra nei dettagli del processo di
disarmo che Usa e Urss cercavano di avviare. Gli bastava
certificare che quella era la direzione giusta. La Pira salutò
con favore il primo accordo, firmato nel 1963, sull'arresto degli
esperimenti atomici: una specie di «leva d'Archimede» per i
progressi futuri. Poco importa se alla fine, non il disarmo, ma il
controllo degli armamenti avrebbe dato un risvolto concreto alla
distensione. Sarebbe apparso assurdo però a La Pira celebrare la
fine della guerra fredda e del bipolarismo con una riabilitazione
pressoché generale della guerra, come doveva avvenire persino in
Italia: la guerra non più impossibile, bensì possibile,
reinserita nell'agenda della politica, anzitutto per tenere sotto
controllo la periferia sofferente e irrequieta così come è
uscita dal crollo del sistema basato sul rapporto Est-Ovest. E
potrebbe non essere un caso se fra i paesi che hanno pagato di più
figurano la Jugoslavia e l'Algeria, che furono fra i più coerenti
assertori del neutralismo.
Certamente La Pira non avrebbe condiviso l'idea che la fine della
guerra fredda avrebbe comportato la fine della storia. La Pira è
lontanissimo sia da Fukuyama che da Huntington. La storia per La
Pira aveva un senso profondo, addirittura il «senso biblico», e
sarebbe comunque continuata. E' la fine della storia, nel caso, ad
essere metastorica, perché apocalittica, compimento della
profezia. La Pira credeva nei profeti non come poesia ma come
visione della storia: in un'intervista rivelò di aver messo
questo concetto al centro del suo colloquio con Nasser. La storia
va inevitabilmente verso la foce e la foce è come una luce. Il
mondo del tempo era pronto per l'inizio dell'età della «pienezza
umana»: quella situazione limite della storia - e la necessità
di oltrepassarla con la scelta della pace per tutti e per sempre -
era stata la norma orientatrice della politica di Kennedy e
Krusciov e dell'azione di papa Roncalli. Quest'obbligo storico e
politico gli richiama continuamente alla mente i testi sacri e i
massimi teologi della storia, a cominciare da sant'Agostino e
Dante, ma La Pira aveva ben presenti anche gli uomini politici
suoi contemporanei, che interpellava personalmente sollecitandoli
ad operare contro la guerra e contro le cause delle varie crisi.
I conflitti a cui La Pira dedicò tanto tempo e tanta riflessione
- e tante preghiere - erano soprattutto quelli del Mediterraneo,
il luogo per eccellenza della pluralità vivificante: il conflitto
arabo-israeliano, la guerra di liberazione dell'Algeria, Suez. Ai
problemi impellenti del Mediterraneo erano rivolti i famosi
Colloqui di Firenze. La famiglia d'Abramo doveva tornare ad essere
appunto una famiglia. L'idea fissa era la riconciliazione senza
forzature e senza esclusioni. E, benché anche qui senza formule
troppo specificate, nessun «distacco». La stessa
decolonizzazione, per esaudire il diritto di autodeterminazioine
dei popoli che era uno dei suoi punti fermi, non gli era
congeniale, almeno come parola. Tante lotte e, paradossalmente,
tanti sforzi di un'eventuale trattativa per dividere popoli che la
storia aveva unito? A parte il caso specialissimo della Palestina,
anche l'esodo dei pieds-noirs dall'Algeria dopo
l'indipendenza fu vissuto come un dramma, non certo per lasciare
ai francesi un'egemonia ormai condannata dalla storia, ma per
l'arricchimento che ne poteva venire a un'Algeria sovrana e
plurale.
Allo stesso scenario, il Mediterraneo, appartiene l'Africa: «Il
destino storico dell'Africa nera è coordinato organicamente, in
certo modo, a quello dei popoli del Mediterraneo»». In questo La
Pira si avvicina molto a Senghor, che sognava la confluenza fra i
tre filoni giudaico-cristiano, arabo-islamico e negro-africano
nella civiltà universale. Niente scontro fra le civiltà secondo
le mode alla Huntington, ma apporti diversi a una stessa
autenticità. Nella lettera indirizzata a Alioune Diop per il
Convegno di «Présence Africaine» che si tenne a Roma nel marzo
1959 scrive di sperare che finalmente i popoli neri, rientrando
come fattore essenziale nella storia di oggi e di domani, portino
alla città universale la loro gloria e il loro onore.
La guerra che più meritò la sua attenzione fu in assoluto quella
del Vietnam. Il Vietnam era la «macchia del mondo». Gli Stati
Uniti offendevano gli altri e se stessi infierendo contro un
piccolo paese coraggioso. La Pira non condivideva tuttavia la
conclusione a cui giunse De Gaulle, secondo il quale con la guerra
in Vietnam gli Stati Uniti avevano perduto ogni credibilità. La
missione che La Pira compì in Vietnam nel 1965 per accelerare i
tempi di un negoziato ebbe un riscontro anche all'Onu, non si sa
fin dove sfruttato bene da Fanfani, e finì nel complesso in modo
infelice fra malintesi e incomprensioni. Ma un'iniziativa per la
pace in Vietnam tre anni prima del Tet, otto anni prima della
Conferenza di Parigi e dieci anni prima del precipitoso abbandono
dell'Indocina da parte degli americani sotto l'incalzare dei
vietcong e delle forze nordvietnamite, dà la misura una volta di
più di quanto il suo afflato pacifista fosse ancorato alla realtà.
Si può dire che La Pira presentì la globalizzazione di fine
millennio? Prescindendo dall'ignominia imperdonabile della guerra
trasformata in routine del discorso e dell'agire politico,
per chi, come La Pira, ripeteva sempre che l'economia non era un
obiettivo ma un mezzo e che tendeva all'umanesimo integrale, un
sistema che si inorgoglisce per aver unificato i mercati, le
finanze e le comunicazioni gli sarebbe apparso sicuramente
parziale e insufficiente. L'universalizzazione lapiriana è altra
cosa dal «pensiero unico». Né va confusa con il relativismo
culturale, che rischia di offuscare i valori irrinunciabili. O
tutti salvi o tutti periti. Il vero fine era piuttosto di
valorizzare ciò che di diverso c'è in Europa, nell'Islam, in
Africa, in Cina o in America per rispettare e far emergere
l'universale - La Pira avrebbe detto la divinità - che è in
tutti.