IDEE
Ma dopo
la vittoria no al mito della guerra
Si andrebbe contro una tendenza
positiva per cui dal secondo conflitto mondiale in poi è stato ripudiato
lo scontro violento come risoluzione internazionale A differenza del primo
dopoguerra
Occorre allora che i movimenti della pace continuino non solo a scendere
in piazza, ma anche ad elaborare una cultura della pace, una filosofia
umanista della convivenza e della cooperazione
Vittorino
Andreoli
La caduta del regime
dittatoriale di Saddam Hussein in Iraq è un fatto indubbiamente positivo,
ma di per sé non garantisce che la guerra, di cui rappresenta un
risultato indubbio, diventi di colpo uno strumento buono. Il fatto cioè
che una guerra possa portare frutti positivi non autorizza a considerarla
un mezzo etico. E per opposti, se la via pacifista non raggiunge
l'obiettivo perseguito, non per questo dev'essere ritenuta sballata.
Ragionamento semplice, e persino lapalissiano, se non fosse che dopo la
guerra del Golfo aumentano i consensi nei confronti della guerra stessa,
si intensificano le critiche verso l'azione dei movimenti pacifisti e
sempre più numerosi sono quelli che adesso si dichiarano favorevoli
all'intervento armato quando prima non lo erano affatto. In Gran Bretagna
il 60 per cento ammette oggi che la guerra era la via giusta da
percorrere, mentre prima di dichiararla si esprimeva così solo il 30 per
cento. Blair è applaudito in parlamento, quando in precedenza 125
deputati del suo stesso partito si erano dichiarati contro la decisione.
Bush ha ormai fama di stratega e uomo saggio.
Insomma, se il risultato non garantisce la bontà del mezzo, è certo che
l'obiettivo raggiunto non giustifichi i mezzi che vanno contro la dignità
umana e contro i principi universali, tra cui il non uccidere. Gli esempi
possono essere molteplici: se un arto ha un inizio di cancrena, è
evidente che l'amputazione toglie il male, ma la via della medicazione -
per quanto lenta - potrebbe portare allo stesso risultato della guarigione
e magari anche al mantenimento dell'arto e della sua funzionalità. Come
dire: sul piano meramente pratico un mezzo va valutato nel confronto
possibile con gli altri mezzi, mentre sul piano etico va bocciato quando
non rispetti la dignità dell'uomo indipendentemente dall'effetto che può
portare sul piano empirico.
Si deve poi aggiungere che il risultato va valutato non semplicemente per
la sua resa immediata ma anche sugli effetti di prospettiva. E nel caso
specifico della guerra in Iraq, già il termine "conclusa"
appare improprio, poiché le guerre del dopoguerra continuano e semmai la
guerra delle bombe viene sostituita da una politica guerreggiata ad armi
puntate.
Del resto, che la guerra venisse vinta dagli anglo-americani non appariva
in dubbio, anche perché le forze in campo erano impari; semmai si
discuteva sui tempi e sul numero delle vittime: problema di quantità. Il
fatto di aver incontrato meno resistenza, nemmeno l'ombra (finora) di armi
efficaci o di distruzione di massa, non deve accendere l'idea che si sia
scoperta la guerra lampo, sempre più breve, e accarezzare la prospettiva
che qualche Paese sia autorizzato ormai a invadere qualsiasi territorio.
Sono preoccupato - in sostanza - di un eventuale clima favorevole alla
guerra che potrebbe ora seguire, quasi si fosse trattato di un'iniziativa
esemplare e tutto sommato poco cruenta. Questo andrebbe contro una
tendenza che considero straordinariamente positiva, secondo la quale
- a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale - si è eroso il mito
della guerra come via di risoluzione dei conflitti internazionali,
sostituito da una consapevolezza nuova circa il profilo disumano,
inaccettabile della guerra stessa. Un percorso che è transitato dalla
guerra attiva alla guerra fredda, che forse è da preferire a quella
combattuta, seppur essa abbia rappresentato uno stadio di possibile guerra
agita. Allo stesso modo degli armamenti che sono il prodotto di una vera
industria, la quale ha bisogno di tenere viva la chance della guerra e di
risorse sempre nuove per battersi con successo.
Rimane un fatto ancora da spiegare sul piano psicologico - sia individuale
che di massa - come sia possibile che gli immani disastri della guerra
producano nella mente degli uomini situazioni di entusiasmo collettivo.
Basterebbe citare la Prima guerra mondiale, vera carneficina con più di
tredici milioni di vittime. Nessuno che abbia provato a capire perché sia
lo scoppio di quella guerra, che ha visto mobilitarsi milioni di giovani
volontari e il coinvolgimento degli intellettuali, sia il suo concludersi,
siano stati accompagnati da entusiasmo.
In pratica la guerra è stata vista non solo come la promozione di un'era
nuova ma, nonostante i morti della Prima, si è continuato con la Seconda
insinuando tra le due guerre il sorgere di una mitologia che ha usato il
cinematografo, un'infinità di libri, la popolarità di canzoni di guerra.
Il «mito del caduto» in guerra e dei racconti di chi la guerra l'aveva
fatta. Si è giunti così alla Seconda che ha esibito disastri ancora
maggiori, atrocità e distruzioni di intere città.
Insomma si era installata l'idea che la guerra e il soldato fossero una
missione da compiere per l'onore, per la grandezza della Patria: una
religione civile, la coscienza di nazione, il patriottismo. Ancora una
volta si declinava la cultura del nemico. La guerra come creazione di chances
nuove. Capaci di sprigionare energia che si traduce anche in esempi di
vita. La guerra come risveglio di tutto un popolo. Il cameratismo, la
fratellanza, lo spirito di corpo. Si era aggiunta anche una iconografia
mitologica: il soldato che saliva sulle vette, in cielo, nella conquista
della libertà. I martiri, le medaglie date alle famiglie, l'orgoglio di
una ferita di guerra. La dura realtà della guerra veniva sublimata,
consacrata allo spirito nobile. Non vi è dubbio che questo mito ha reso
facile a Hitler e a Mussolini la retorica della grandezza e persino della
purezza della razza. Mistificazione che è analizzata in un bel libro di
George L. Mosse, Le guerre mondiali dalla tragedia al mito del caduto
(Laterza,1990), e che ha iniziato a declinare negli anni Cinquanta, quando
si rafforza l'idea di escludere le guerre come via di soluzione ai
conflitti, e si dà mandato a una società delle Nazioni per trovare
strade alternative agli stessi. Questa mitologia si è i ndebolit a cioè
con la fine dei fascismi e dei nazionalismi estremi. Si è indebolita con
il profilarsi dell'Europa e di un'Europa allargata che metteva insieme
vecchi e storici nemici nazionali. Si è ulteriormente allentata sulla
mentalità del mondo giovanile che stava rifiutando il sacrificio bellico
come imperativo d'onore. Via via la guerra - come è apparso dalle
manifestazioni recenti - perdeva di rilievo a favore della pace.
Occorre evitare - in altre parole - che il ragionare di oggi, sul
dopoguerra, tenda a mostrare la guerra come sistema di giustizia, come
modalità per eliminare i tiranni, magari sulla base di quel che assicura
una propaganda televisiva folle. Un déjà vu che preoccupa, perché
la guerra potrebbe essere una "soluzione" sì ma
post-industriale, sui resti di un consumismo deleterio quanto vorace.
E c'è una grande voglia di ammazzare, di comportamenti violenti e di una
bellicosità che non tarderà a rivedere nella guerra una sorta di
compenso e di scarica per un vigore umano, che poi servirà a lasciare per
un po' la terra in pace. C'è inoltre il dominio di un'incultura e di una
stupidità che favorisce anche l'assurdo e ideologie vecchie che la
smemoratezza nemmeno riecheggia.
E non va dimenticato che persiste nascosto il "demone
militarista": quello che aveva riempito di fascino il libro di Carl
von Clausewitz, Della guerra, che ha dominato fin dal 1832, quando
apparve. Un libro che parla dell'arte della guerra e persino di «animi
filantropici che possono facilmente pensare che ci sia un modo
perfezionato di disarmare e abbattere il nemico senza causargli troppe
ferite e che questa appunto sia la vera meta dell'arte della guerra». Una
posizione che richiama fortemente quella del Pentagono di questo periodo
che, tra bombe intelligenti e morti al minimo, vuole presentare la guerra
come uno strumento buono e persino come un'arte.
L'altro grande apporto del libro di Clausewitz è di legare la guerra alla
politica («la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi»)
e quindi di considerarla come un semplice strumento di governo «per
ridurre il nemico alla nostra volontà». Una teoria che si fonda sul
bisogno di un nemico, e c'è chi è abituato a vivere di almeno un nemico:
senza di esso finirebbe per essere preso dal panico oppure di cercarlo
come facevano gli inquisitori con le streghe. Un atteggiamento che non è
solo dello Stato centrale ma rischiosamente si estende ad ogni cittadino
che porta in borsetta una pistola, perché ognuno ha almeno un nemico
personale.
Tutto ciò è veramente pericoloso, poiché mette in
bella luce - quasi si trattasse di una top model - la guerra. Occorre
allora che i movimenti della pace continuino non solo a scendere in
piazza, ma ad elaborare una cultura della pace, che significa una
filosofia umanista della convivenza e della cooperazione.
testo integrale tratto da "Avvenire" - 29 aprile
2003