MEDIA PERSUASORI OCCULTI |
Televisione la
fabbrica di Pinocchio
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di Andrea Camilleri
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Se apro un'Enciclopedia e vado a consultare la
voce Comunicazione, trovo scritto ad apertura: «Tutta la
fenomenologia dell'ambiente relazionale e sociale può essere vista
come comunicazione. In altri termini tutto ciò che arriva agli
organi sensoriali di un organismo può essere considerato come un
dato informativo che l'organismo riceve ed elabora. Ma questa
concezione così ampia ci può permettere di fare ben pochi
progressi nello studio dei processi di comunicazione».
Questo sta a significare, in altri termini, che vivere è
sostanzialmente comunicare. Non comunicare può quindi dirsi non
vivere?
Parafrasando Shakespeare si potrebbe dire che tutto il mondo (che
dico il mondo? L'Universo!) è comunicazione, volontaria o
involontaria.
Colto da una leggera vertigine all'idea delle infinite implicazioni
di ciò che ho appena letto, metto da parte l'Enciclopedia e prendo
tra le mani un più modesto Dizionario. Qui, alla voce relativa, si
trovano scritte alcune definizioni più rassicuranti nel senso che
in qualche modo restringono il campo. Comunicazione: «1) il
comunicare, ciò che si comunica; 2) contatto che permette di
comunicare; 3) insieme di strutture, impianti, mezzi che
stabiliscono un collegamento; 4) trasmissioni di informazioni
mediante messaggi da un emittente a un ricevente; 5) comunicazione
giudiziaria; 6) comunione eucaristica».
Ma anche così ristretto, palettato, il campo rimane vastissimo e al
tempo stesso alquanto vago e sfuggente (considerate che si va dalla
più elementare comunicazione, «ieri è stata una bella giornata»,
alla comunicazione giudiziaria che oggi come oggi è cosa complessa
assai e infine alla comunicazione con Dio, che è cosa di una
complessità totale, assoluta). Prenderò allora in considerazione
esclusivamente il punto primo: davvero la comunicazione è solamente
ciò che si comunica? Non manca qualcosa di fondamentale in questa
prima definizione?
Consentitemi un esempio storico, un po' brutale, per niente
accademico, ma significativo. Il XX congresso del Pcus, il primo
dopo la morte di Stalin, si aprì a Mosca il 16 febbraio 1956. Erano
presenti migliaia di delegati di tutto il mondo. La delegazione
italiana, capeggiata da Togliatti, era composta da Scoccimarro,
Bufalini e dal napoletano Cacciapuoti. Sottolineo la napolitanità
di Cacciapuoti a ragion veduta. All'apertura, dopo gli inni e i
saluti di rito, un sovietico che sedeva al tavolo della presidenza
si alzò per fare una comunicazione, consistente nell'interminabile
elenco dei compagni deceduti dall'ultimo congresso con relativo
elogio individuale. Il penultimo fu un giapponese.
«E infine - concluse - è morto il compagno Josif Vissarionovic
Stalin». E si risedette, senza aggiungere parola.
Il silenzio che calò improvviso tra le migliaia di delegati
sorpresi, interdetti, perplessi venne rotto dall'immediato commento
del napoletano Cacciapuoti, un commento che non posso riferire in
quest'aula, ma mi limito a dire che è fatto di una sola parola di
cinque lettere che comincia con «c» e finisce con «o».
Cacciapuoti era stato il primo a capire il senso e il significato di
quella comunicazione. Se andiamo a guardar bene, ad allarmarlo non
era stata la mancanza di una pur minima parola d'elogio funebre,
poteva darsi che la vera e propria commemorazione fosse stata
demandata ad altri di più elevato livello (e infatti poco dopo di
Stalin parlò Krusciov, nuovo segretario del partito, e si trattò
di una damnatio memoriae), ma era stata l'inversione
dell'usuale e rigida gerarchia per cui il nome di Stalin dal primo
posto era passato all'ultimo.
Allora la definizione del dizionario che la comunicazione è ciò
che si comunica andrebbe integrata così: «ciò che si comunica e
come lo si comunica». Ma, attenzione, da tutto questo consegue che
se il codice nella comunicazione è il fattore indispensabile alla
produzione e alla interpretazione del messaggio, nel caso preso in
esame mi pare, e forse posso sbagliarmi, che vennero usati tanto un
codice quanto un subcodice: il codice era l'elenco puro e semplice
dei compagni deceduti, il subcodice consisteva nell'ordine dei nomi
che componevano l'elenco. Solo che il subcodice, ai fini della
comunicazione, risultava di gran lunga più importante del codice
stesso.
In altri termini, quella comunicazione fingendo di obbedire alla
regola che «il codice deve essere un sistema convenzionale
esplicito per poter permettere il processo di codificazione e di
decodificazione», metteva in pratica un codice implicito destinato
ad allertare i più ricettivi tra i presenti.
Da quel congresso non sono ancora trascorsi 50 anni. Se Hobsbawn ha
potuto definire il secolo scorso come il secolo breve è certamente
perché la somma degli avvenimenti sociopolitici ed economici, le
due grandi guerre, lo sviluppo dell'aviazione, la bomba atomica e
l'energia nucleare, il progresso tecnologico hanno fatto assumere
soprattutto negli ultimi 50 anni al nostro mondo una massa così
spaventosamente pesante da farlo apparire persino di breve
circonferenza, come avviene con le stelle implose.
E naturalmente, per quanto riguarda lo specifico della mia
considerazione, mi basterà richiamare la vostra attenzione sul
dominio assoluto rapidamente acquistato dalla televisione prima (e
con la quale è nato il fenomeno detto «comunicazione di massa») e
da Internet negli anni più recenti. Ma proprio questo dominio
assoluto rappresenta, almeno ai miei occhi e lietissimo se qualcuno
dimostrerà il mio errore, un forte rischio per l'intelligenza
dell'uomo stesso. Intelligenza dal latino intelligere,
capire.
Nei primi tempi della televisione, tutto ciò che essa ci mostrava
era, e voleva essere, un presente continuo fatto vedere nella
sua immediata verità. Non sapevamo allora, primitivi
spettatori, che anche all'immagine doveva essere applicato il
principio d'indeterminazione, quello che, secondo i padri fondatori
della quantistica, suona pressappoco così: ogni fenomeno fisico si
modifica per il fatto stesso di essere osservato.
E non sto minimamente parlando della manipolazione dell'immagine:
sono ancora fermo al fatto che lo sguardo dello spettatore è
totalmente guidato e condizionato dallo sguardo di colui che sta
riprendendo l'immagine e cioè dal posizionamento della telecamera,
dalla disposizione delle luci, dall'ordinamento dell'inquadratura,
dal movimento all'interno di essa. Tutte cose che concorrono quindi
alla creazione di un'immagine non immediata ma accortamente mediata
e certamente finalizzata a suscitare una precisa reazione nello
spettatore.
Ricordo che ai primissimi tempi della televisione in Italia mi capitò
un fatto che mi turbò e che ancora continua a mettermi in un certo
disagio. Allora c'era un solo canale televisivo ed erano da poco
entrate in uso apparecchiature che permettevano la registrazione dei
programmi. Ogni domenica mattina veniva celebrata in diretta, dalla
cappella degli studi di via Teulada, la santa messa per tutti coloro
che non potevano uscire da casa per recarsi in chiesa. Un giovedì
pomeriggio, passando davanti alla porta a vetri della cappella, vidi
un prete che officiava la messa e due telecamere che lo
riprendevano. M'informai con un tecnico.
«Stiamo registrando la messa che manderemo in onda domenica mattina»
mi rispose. La domenica seguente mi misi davanti al televisore:
ebbene, quando cominciò il rito, nessun cartello avvertì i fedeli
che il miracolo della transustanziazione veniva trasmesso in
differita. Sono scarso assai in problemi teologici, ma sento
oscuramente che l'episodio appena raccontato entra in qualche modo
nel discorso che vado facendo.
Sono bastati pochi decenni perché in tutto il mondo le emittenti
televisive si moltiplicassero e alle televisioni di Stato si
affiancassero un'infinità di televisioni private. Internet inoltre,
interagendo con le tv, ha reso il campo della comunicazione e
dell'informazione praticamente senza limiti. Questo vertiginoso
allargamento della comunicazione è stato salutato da tutti come il
segno di una finalmente raggiunta libertà d'informazione. Ma questo
tipo di libertà coincide con la possibilità d'approssimarsi a una
verità potabilmente limpida e priva di germi? [...]
Ognuno di quelli che mi stanno ascoltando sa benissimo che negli
ultimi anni il corso delle cose che prima, per dirla con
Merleau-Ponty, era «passabilmente sinuoso», si è fatto
totalmente, indecifrabilmente labirintico e questo non solo per la
complessa decrittazione di ogni evento in sé, quanto piuttosto per
le molteplici e contrastanti e depistanti decrittazioni che la
comunicazione dell'informazione si affretta a offrire.
Difficile oggi incontrare un'Arianna su uno schermo televisivo. E
quando la s'incontra, sappiamo ormai che non è prudente fidarsi del
filo che ci porge.
Ma non è questo il vero problema. Il problema è, a mio parere,
l'ulteriore e pericoloso cambiamento avvenuto negli ultimi due anni
circa nella comunicazione di massa. Cambiamento evidente attraverso
l'osservazione di come le televisioni mondiali si sono comportate, e
continuano a comportarsi, di fronte a un evento che ha coinvolto
decine e decine di nazioni.
Di un dittatore, non più feroce di tanti altri che vengono
oltretutto foraggiati dai paesi democratici (e il nostro lo era già
stato), si comincia a fare, prima con le parole del presidente degli
Stati Uniti e dei suoi più importanti ministri e quindi attraverso
un subitaneo tam tam mediatico, insistente, assordante,
coinvolgente, travolgente, ubriacante, con sventagliate continue di
notizie e soprattutto immagini volte non alla ragione ma
all'emozione, con flash che attengono più alla pubblicità che alla
politica, con un martellare d'incontri e dibattiti dove si adopera
un linguaggio costantemente sovratono, di questo dittatore si fa,
dicevo, il nemico pubblico mondiale numero 1, in possesso di
spaventose armi di distruzione di massa, capaci di distruggere una
città europea in quarantotto ore, come asserisce turbato il primo
ministro britannico.
Il ministro degli Esteri statunitense si reca all'Onu e con grafici,
fotografie, fialette, dimostra inequivocabilmente l'esistenza di
quelle armi da anni, ricordiamocelo, invano cercate dagli stessi
ispettori dell'Onu. Le voci soliste che incitano alla guerra si
trasformano ben presto in coro: la guerra preventiva è ineludibile,
bisogna attaccare prima di essere attaccati. Anche i paesi che sono
per una soluzione politica e non bellica concordano pienamente sulla
pericolosità e la cieca ferocia del dittatore. La guerra è stata
scatenata, è costata decine di migliaia di morti innocenti, il
dittatore è stato preso prigioniero, la guerra è finita ma si è
tramutata in un quotidiano massacro, è stato insomma scoperchiato
incautamente un vaso di Pandora che sarà arduo richiudere.
Ma le famose armi di distruzione di massa non vengono mai ritrovate,
comincia a serpeggiare il sospetto che probabilmente non ci sono mai
state. Poi il sospetto diventa certezza. I governi che hanno
promosso la guerra sono costretti ad ammetterlo. Il ministro degli
Esteri statunitense, dimessosi, ora dichiara di avere ingannato il
mondo in buona fede, perché ingannato a sua volta dai servizi
segreti. Insomma, non era mai esistito il presupposto principale per
fare la guerra. Era un falso spudorato, una tragica guerra di
Pinocchio.
Ma la conoscenza dell'inganno perpetrato dai capi di Stato non
scalfisce se non in minima parte, nell'opinione pubblica, il potere
di coloro che hanno anche coscientemente ingannato. Anzi, si dà il
caso che il primo responsabile, l'americano, venga rieletto a
travolgente maggioranza. E anche l'inglese, quando la guerra ormai
si consolida come un inutile carnaio, ottiene una storica terza
investitura. Tutti e due hanno mentito ai loro popoli, ma i loro
popoli gli hanno rinnovato la fiducia.
Perché? Questo è il punto. Si può azzardare un'ipotesi. E cioè
che questo è possibile perché i mezzi di comunicazione di massa,
da fabbriche di consenso, si sono tramutati, riuscendoci, in
convertitori di fede, in fabbriche del credere. Hanno saputo
trasformare una guerra evitabile in una lotta suprema tra il Bene e
il Male, tutti e due con le iniziali maiuscole.
Forse riuscirò a spiegarmi meglio citando un passo del grande
fisico Werner Heisenberg, con l'avvertenza che è estrapolato da un
saggio, Fisica e filosofia, dato alle stampe nel 1958: «Non
possiamo chiudere gli occhi al fatto che è difficile per la gran
maggioranza della gente farsi un giudizio ben fondato sulla
giustezza di certe dottrine o idee generali. Quindi può essere che
la parola "credere" non significhi per la maggioranza di
quella gente "percepire la verità di qualche cosa", ma
viene piuttosto presa nel senso di "assumere questo a base
della vita". Si può facilmente intendere come questo secondo
tipo di fede sia molto più fermo e stabile che non il primo e come
possa persistere perfino contro un'esperienza diretta che la
contraddica, senza restare scossa, perciò, da alcuna sovraggiunta
conoscenza».
Permettetemi un'ultima citazione. Scrisse Stanislaw Jerzy Lec: «Quando
la menzogna ottiene il diritto di cittadinanza non per questo
diventa verità». Perfettamente d'accordo. Ma se la menzogna
ottiene il diritto di cittadinanza sotto forma di fede? E questo, in
parole povere e conclusive, dimostra, a parer mio, che se non
l'eclissi, ma almeno l'offuscamento della ragione non è né
un'ipotesi astratta né una remota probabilità
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testo integrale tratto da "La
Stampa" - 26 maggio 2005 |