Intercedere per la pace con la creatività e la tenacia di Giovanni Paolo II

Card. CARLO MARIA MARTINI


GERUSALEMME, Quaresima 2003.
Sono passati sei mesi da quando ho terminato il ministero attivo come Arcivescovo e in molti mi domandano, anche solo implicitamente, le ragioni del silenzio "sabbatico" tenuto in questo periodo, invitandomi a romperlo in qualche occasione particolare.
Vorrei anzitutto precisare che non si tratta di un silenzio che si potrebbe un po' definire come "dispettoso" (cioè di chi si tira fuori dai problemi con senso di superiorità o di sufficienza), né del silenzio detto "ossequioso", quello cioè di chi ha paura di disturbare autorità politiche o ecclesiastiche:  si tratta di un silenzio che vorrei definire "rispettoso", che tiene conto cioè della mia nuova situazione di vita, del mio abitare in parte a Roma e in parte a Gerusalemme e degli equilibri delicati che tutto ciò comporta. Ma vorrei definirlo al meglio un silenzio "sabbatico", ricordando quelle parole che noi sacerdoti anziani citiamo ancora della Bibbia latina "sabbato quidem siluerunt secundum mandatum" (Lc 23, 56) dove la Bibbia della C.E.I. traduce "il giorno di sabato osservarono il riposo, secondo il comandamento":  che è poi quel medesimo antico comandamento che impone, per la sanità stessa dell'uomo e in ordine al servizio dell'Altissimo, l'alternarsi di lavoro e di riposo, e quindi anche di parola e di pause di silenzio.
Ma vi sono pure occasioni e situazioni che invitano a fare eccezione a questa regola, per ragioni gravi. E terribilmente grave è certamente la situazione delle attuali minacce alla pace e delle violazioni della pace, messe in questi giorni ancora più in rilievo da grandi e corali desideri di pace.
Ci si deve certamente rallegrare di questa grande, spontanea, diffusa, praticamente unanime volontà di pace. Vi è in essa un riflesso del desiderio di quella pace che è dono di Dio, della pace offerta a Betlemme agli uomini che Dio ama.
Questa volontà e questa ansia di pace, che totalmente condividiamo, ci spingono però a ricordare tre cose.
La prima è che la pace ha un costo. Mi diceva un amico qualche tempo fa, parlando della sua esperienza come straniero in una società travagliata da conflitti:  questa società, nelle sue espressioni migliori, vuole sinceramente la pace, ma non sa decidersi a pagarne il prezzo. Va infatti ricordato che persino quel fiore raro e prezioso del Vangelo che talora viene chiamato (con una semplificazione terminologica) "non violenza", ha un prezzo preciso:  "a chi ti vuole chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello" (Mt 5, 40). Ciò significa che bisogna essere disposti a pagare un prezzo e a rinunciare anche a qualcosa a cui si avrebbe pure diritto. Non basta dunque invocare la pace:  bisogna essere disposti a sacrificare anche qualcosa di proprio per questo grande bene, e non solo a livello personale ma pure a livello di gruppo, di popolo, di nazione.
Una seconda cosa che menzionerei è che la pace non è mai un edificio solido, costruito compatto una volta per tutte, ma somiglia piuttosto ad una tenda, ad un castello di sabbia, da custodire e da ricostruire sempre con infinita pazienza ("settanta volte sette" direbbe Gesù, cfr Mt 18, 22). In altre parole, non è sufficiente rifarsi soltanto a considerazioni etico-politiche (chi ha ragione, chi ha torto, chi è l'aggressore, chi è l'aggredito, l'uso della legittima difesa, l'eventuale possibilità di una guerra giusta ecc.). Occorre avere il coraggio di proclamazioni profetiche, che tengano conto della precarietà e peccaminosità della situazione umana storica.
Infatti la prima e perenne difficoltà nella costruzione della pace nella città degli uomini risiede in un dato antropologico che la Bibbia ricorda fin dalle prime pagine e cioè che "l'istinto del cuore umano è incline al male fin dalla adolescenza" (Gen 8, 21). Ogni volontà costruttiva della pace si scontra con la ineludibile aggressività umana, col desiderio insito in tanti di noi, persone e gruppi, di possedere ciò che è dell'altro, di avere più dell'altro, meglio dell'altro, togliendolo, se non c'è altro mezzo, anche con la forza. Tutto ciò costituisce una dimensione tragica dell'esistenza che non è lecito ignorare, fare come se non esistesse. In questo senso la sola e astratta sollecitazione di atteggiamenti belli ma carichi di utopia, senza inserirli nel contesto reale della struttura, dei bisogni e delle miserie umane, minaccia alla fine la causa stessa della pace.
Non per niente una delle tradizioni bibliche più antiche dice che la prima città fu fondata da Caino, allo scopo certamente anche di contenere e arginare quelle  aggressioni  scatenate che  alla fine avrebbero potuto uccidere lo stesso Caino (cfr Gen 4, 17).
Il conflitto, l'uso della forza, la possibilità dello scatenarsi della violenza, sono dati di cui si deve tener conto nel programmare la vicenda umana, ciò che è compito soprattutto dei politici. È perciò inevitabile, per la pace di questo mondo, ideale sommo e sempre da perseguire con indomito coraggio, ritessere continuamente le fila di una concordia che non si illuda di sradicare del tutto l'aggressività, ma che si proponga il compito, più modesto ma insieme più realistico, di moderarla fino al punto da preferire talora anche un compromesso, in cui ciascuno debba concedere qualcosa a cui avrebbe teoricamente diritto, in vista del superamento di una litigiosità violenta e senza fine. Si tratta cioè di superare il solo punto di vista etico-politico per accedere a quel profetico "porgi l'altra guancia" (cfr Mt 5, 39) che non crediamo sia così utopico come sembrerebbe a prima vista.
La difficoltà perenne di una politica della pace (che sarà sempre una pace fragile e minacciata) sarà infatti proprio nella determinazione del punto di equilibrio tra le ragioni delle parti in causa e le possibilità pratiche di gestirle senza conflitto violento, in una sana dialettica che conduca tutti i contendenti alla rinuncia di qualcosa di proprio in vista della ricerca del maggior bene comune concretamente realizzabile qui e ora.
La terza verità da ricordare è che, per tutti i motivi detti sopra, una pace seria e duratura, là dove persistono ragioni gravi di conflitto, ha sempre un po' del "miracoloso", dell'improbabile, del "dono dall'alto" ("Vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi", Gv 14, 27) e perciò chi crede in Dio la deve chiedere nella preghiera con tutte le forze e anche chi non crede la deve invocare dal fondo della propria coscienza pronto a sacrificarsi con tutto se stesso. Occorre cercare la pace possibile e intercedere per essa con quella instancabilità con cui pregava Gesù nell'orto degli Ulivi "ripetendo le stesse parole" (Mt 26, 44), con quella costanza, perseveranza, creatività e tenacia di cui ci dà esempio Papa Giovanni Paolo II.
Come afferma il Concilio Vaticano II, la pace (che è molto di più che non l'assenza di guerra o la presenza di un fragile armistizio) è il dono che va invocato e ricercato con l'aiuto di tutti:  "La pace terrena che nasce dall'amore del prossimo, è immagine ed effetto della pace di Cristo, che promana da Dio Padre" (Gaudium et spes, n. 77).
Di qui si può anche intendere il senso vero e profondo del famoso e sapiente detto biblico "opus iustitiae pax" (cfr Is 32, 7):  "effetto della giustizia sarà la pace". Sì, la pace non può che essere frutto della giustizia, ma la pace di questo mondo non sarà soltanto il risultato di una giustizia mondana perfetta, che non si avrebbe mai nelle attuali aggrovigliate condizioni storiche, ma frutto di quella giustizia che è al momento ottenibile anche a prezzo di sacrifici e rinunce di singoli e di gruppi in vista di un bene comune più alto e condiviso. La pace perciò alla fine è opera di una giustizia che partecipa della giustizia divina, di una giustizia cioè che è anche perdonante, misericordiosa, riabilitante, capace di dimenticare i torti subiti.

testo integrale tratto da "L'Osservatore Romano" - 12 Marzo 2003