SCENARI
SOCIALI
Lavoratori
over 50: un milione rischia l'«emarginazione»
Sono i «nuovi
disoccupati» (dal credito al tessile) che spesso diventano anche i «nuovi
poveri», con famiglia a carico. Anche se molti si aggrappano al sommerso
e agli impieghi occasionali
Di
Diego Motta
Il «precario» più fragile? Adesso ha
50 anni. È reduce da un'avventura professionale importante che è finita
male, è un ex dirigente che deve riqualificarsi tra collaborazioni e
consulenze oppure, nel peggiore dei casi, è finito nella rete degli
esuberi e ora si accontenta di fare la badante alla mamma malata
percependo la pensione di accompagnamento. Nessuna sorpresa, gli
ultra-cinquantenni sono il nuovo anello debole della catena occupazionale:
tra collaborazioni cooordinate e continuative, offerte di impiego a tempo
e lavoretti in nero, avanza una nuova categoria di lavoratori sempre più
a rischio. In Italia avviene molto di più che nel resto d'Europa. Lo
testimoniano gli ultimi dati diffusi dal Censis, secondo cui con 40,2
persone attive ogni 100 abitanti, di età compresa tra i 50 e i 65 anni,
il nostro Paese è quello con la partecipazione più bassa al mercato del
lavoro. Siamo i fanalini di coda, dietro all'Ungheria (40,6%) e al Belgio
(42,1%), tenuti nettamente a distanza dal Regno Unito (60,7%) e dalla
Germania (48,6%). Forse è troppo poco per dire che gli over 50 sono i «nuovi
poveri», di certo è una statistica sufficiente per aprire una finestra
sui «nuovi disoccupati», che non sono solo un problema per imprese e
istituzioni, ma anche un inedito fenomeno sociale dagli aspetti
controversi.
Licenziamenti e mobbing
«Tutto è nato da una teoria portata in Italia negli anni scorsi da
manager americani e asiatici - racconta Armando Rinaldi, un ex dirigente
della Philips che ha fondato Atdal, un'associazione per la tutela dei
diritti acquisiti dei lavoratori -. Dicevano che in azienda era meglio
scommettere sui giovani, affidando ai trentenni le responsabilità che
prima investivano chi di anni ne aveva 20 in più. È cominciato così un
ricambio che ha visto soprattutto i grandi gruppi mandare a casa impiegati
di alto livello, quadri e funzionari». Licenziati in tronco senza la
possibilità di godere di ammortizzatori sociali, invitati a cambiare
rapporto di lavoro trasformandolo da un contratto a tempo indeterminato in
una collaborazione esterna, agevolati ad «uscire» con formule di
prepensionamento (quando va bene) o attraverso pressioni di vario tipo. «Quanti
siamo? Secondo i nostri dati, dai 700mila a un milione di ex lavoratori
dipendenti - spiega Rinaldi -, senza considerare ovviamente quel milione e
mezzo di persone che rientra nella categoria riconducibile a vero mobbing».
Il Censis invece fa notare che il basso tasso d'impiego dei cinquantenni
italiani solo in parte si spiega con l'uscita anticipata dal mercato
occupazionale. «La bassa propensione al lavoro è da tempo un problema
strutturale dell'Italia - spiega Ester Dini, una ricercatrice
dell'istituto guidato da Giuseppe De Rita -, che si accentua nelle classi
d'età più alte. Non dimentichiamoci peraltro che le dimensioni del
sommerso e le opportunità di lavoro occasionale in Italia non mancano e
spesso vengono in soccorso a chi perde il posto a 50 anni». Normalmente,
succede che chi ha maturato i diritti alla pensione tende ad incassare
subito per evitare brutte sorprese, mentre va allungandosi la fila per
ottenere uno stipendio «in nero».
Tra speranza e pessimismo
I settori più colpiti da crisi da rigetto per i cinquantenni sono quelli
dell'informatica, del credito e del tessile, anche se qualche segnale in
controtendenza, con un ritrovato interesse per questa generazione
dimenticata, sembra timidamente farsi avanti. «Da qualche mese diverse
imprese hanno invitato gli over 65 a restare. Tutto dipende dal grado di
professionalità acquisita - dice la Dini -. Chi ha maturato un alto
livello di esperienza e di qualificazione ha ancora speranze di venir
valorizzato, mentre il personale con più di 50 anni senza particolari
qualifiche viene ancora penalizzato». «Può esserci un risveglio
d'attenzione - sottolinea Rinaldi -, ma si tratta sempre di ragionamenti a
breve termine. Per un'azienda che pianifica non più a due o tre anni ma a
du e o tre mesi, tutto si risolve con la precarizzazione dei rapporti di
lavoro». Ecco l'aspetto socialmente rilevante del fenomeno: un conto è
l'incertezza negli orizzonti professionali a 25 anni, un altro è dover
ripartire da zero a 50, quando magari si ha sulle spalle una famiglia e
figli a carico. Senza contare gli effetti psicologici sui singoli, spesso
drammatici: c'è chi è finito in depressione, chi è dovuto tornare a
casa da genitori anziani, chi ci ha messo tempo a reinventarsi un'altra
attività (ammesso vi riesca). Dalle garanzie del posto fisso alla
scommessa della partita Iva, non è facile ricominciare. «Di questo passo
c'è il rischio che si spezzi il legame fiduciario tra le generazioni»,
fa notare la Dini. «Non è un problema solo italiano, è anche europeo -
aggiunge Rinaldi -. Come è stato fatto all'estero, bisognerebbe anche nel
nostro Paese saper mettere da parte la corsa alla flessibilità a tutti in
costi, per tornare a ragionare sugli ammortizzatori sociali». I problemi
cambiano, e a 50 anni non c'è troppo tempo per aspettare.
testo integrale tratto da "Avvenire"
- 13 ottobre 2004