La
vulnerabilità di un paese a rischio
L'economia italiana si regge solo sul basso
costo del lavoro.
Lo
sostiene l'ultimo rapporto dell'Istat che giudica inutile il taglio di 5
punti del cuneo fiscale. In questo paese distorto crescono le
disuguaglianze e il disagio sociale e si ampliano le aree di povertà.
Consumi in calo, incertezza crescente
Galapagos
Un paese «vulnerabile», l'Italia, alla quale l'Istat
ha dedicato il «Rapporto annuale» presentato ieri. Le aree di
vulnerabilità sono numerose. Comprendono la struttura produttiva, il
mondo del lavoro, la finanza pubblica e gli aspetti sociali a cominciare
dalla distribuzione fortemente squilibrata del reddito e della ricchezza.
Considerando che la vulnerabilità si inserisce nel contesto di un paese
dicotomico (Nord-Sud) c'è poco da stare allegri. L'Istat lancia un chiaro
messaggio alla politica: datevi da fare, fate «crescere la fiducia»,
altrimenti dietro l'angolo ci potrebbe essere un tracollo del sistema.
L'impostazione del Rapporto è abbastanza tradizionale. Il primo capitolo,
come al solito è dedicato all'analisi congiunturale. Un disastro:
nonostante il rimbalzo del 2004 (+1,1% la crescita del Pil) «nell'ultimo
quadriennio l'economia ha segnato un tasso di sviluppo medio pari ad
appena lo 0,4% all'anno» e tutte le componenti della domanda (consumi,
investimenti, esportazioni) hanno contribuito a frenare la crescita. Viene
spiegato che l'economia italiana «non ha agganciato la ripresa mondiale»
a causa di fattori strutturali: il modello produttivo non favorisce la
crescita perché ha carenze di dimensione e specializzazione. Niente di
nuovo, viene da dire: le stesse cose da anni le sostiene anche Bankitalia.
Però i numeri che fornisce l'Istat sono drammaticamente significativi. Un
paio di esempi: nel 2003 per industria e servizi la produttività del
lavoro era nell'ordine dei 37 mila euro per addetto: di poco superiore a
quella della Spagna, ma nettamente inferiore a quella - 50 mila euro - di
Germania e Francia. Come regge il sistema, visto che la produttività è
inferiore di un un buon 10% a quella dei paesi concorrenti? Semplice: «il
sistema delle imprese supporta un costo del lavoro nettamente più basso
di quello degli altri paesi europei. Cioè, 9 mila euro meno della Francia
e 14 mila euro per addetto meno della Germania. «Il risalutato sostiene
Luigi Biggeri, presidente dell'Istat - è che nelle imprese italiane la
redditività resta in linea compensando il minor valore aggiunto per
addetto con il basso costo del lavoro». Questo significa che il sistema
produttivo sopravvive in un equilibrio precario nel quale la
precarizzazione e il basso costo del lavoro sono necessarie alle imprese
per non sparire di fronte alla concorrenza.
Ma la rincorsa al basso costo del lavoro non può durare all'infinito. I
«pannicelli caldi» di ulteriori riduzione del costo del lavoro sono
inutili. E l'Istat lo dichiara pubblicamente affermando che il taglio di 5
punti del cuneo fiscale (preteso da Confindustria e concesso da Prodi) «rischia
di fornire un disincentivo all'innovazione - di prodotto e di processo - e
al passaggio verso tecnologie capital intensive» premiando «solo
le imprese meno produttive».
Certo, spiega l'Istat, in Italia punte di eccellenza non mancano, ma
quello che impera è l'industria che fa utili solo puntando sul basso
costo del lavoro. Quello che occorre invece è una profonda innovazione,
più ricerca e sviluppo, dimensioni aziendali maggiori, perché solo le
medie grandi imprese sono in grado di investire e innovare. E al top di
queste gruppo di imprese ci sono moltissime imprese pubbliche (78 mila
euro di fatturato per addetto, contro i 54 mila delle imprese private con
oltre 50 addetti, pure in presenza di retribuzioni mediamente molto
superiori) a dimostrazione che il libero mercato non è in grado di
raggiungere che un equilibrio molto precario e escludente. A cominciare
dal lavoro.
E il lavoro è una delle zone più grigie dell'Italia. Rispetto agli altri
paesi, anche quelli europei è molto basso il tasso di occupazione. Di più:
la partecipazione part time non appare quasi mai (per oltre il 60%) come
una libera scelta, ma come un opzione imposta dal mercato. C'è poi il
capitolo dei giovani che hanno una forte incidenza di occupazione
sottoinquadrata (3,7 milioni, il 16,5% del totale) e di conseguenza sotto
pagata. E poi le donne: per alcuni anni avevano rappresentato la
componente più dinamica dell'occupazione, ma ora sono di nuovo respinte
ai margini. Spiega (forse semplificando l'Istat) la «donne lavorano di più
se sono single e vivono con i genitori». Vivere in coppia e avere figli
«comporta un aumento del tempo di lavoro familiare e una riduzione del
tempo dedicato al lavoro retribuito».
Le basse retribuzioni conducono inevitabilmente a forte sperequazioni
nella distribuzione del reddito, ai margini della società ( come si può
leggere nell'articolo pubblicato sotto). E questo porta a bassi consumi, a
instabilità a un forte disagio. Il tutto accompagnato da «immobilità
sociale», cioè sclerotizzazione delle figure sociali. Insomma, non è un
bel vivere
testo
integrale pubblicato da "Il Manifesto" - 25 maggio 2006