La solitudine del parroco

di Francesco Palazzo

 

Il decimo anniversario dell'uccisione per mano mafiosa di don Pino Puglisi, prossimo alla beatificazione, può indurre alla celebrazione agiografica, che è un modo di fare un santino di una esperienza umana: che, come ogni percorso esistenziale, deve essere invece letta in maniera critica per ricavarne una riflessione sul passato e qualche ipotesi per il futuro.

Padre Puglisi giunge nel 1990 in una Brancaccio che non é  il deserto che hanno fatto credere. L'aveva preceduto, dal 1985 al 1989, l'esperienza di un tipo di Chiesa, ma anche di un modello di società , che aveva visto nell'ambito ecclesiale e nel territorio parecchi segnali di risveglio decisamente di svolta  rispetto a esperienze pastorali precedenti. Queste ultime per circa un ventennio aveva interpretato quella Chiesa del silenzio pauroso che non vedeva neanché i morti che la guerra di mafia dei primi anni Ottanta andava spalmando sul territorio del quartiere Brancaccio-Ciaculli. Allora la Chiesa a livello diocesano dormiva, anche il grido di dolore di Salvatore Pappalardo nel duomo di San Domenico, in occasione dei funerali di Dalla Chiesa e della moglie, arrivava con evidente ritardo  e si limitava a registrare quanto era avvenuto e stava avvenendo. Anche Giovanni Paolo II, che nel 1982 aveva visitato Palermo, in piena guerra di mafia e quando già era partita l'offensiva di Cosa nostra nei confronti delle istituzioni, non aveva fatto altro che regalarci, sul tema della lotta alla mafia, un distaccato silenzio.

L'esperienza che inizia a Brancaccio nel 1985, simile a quelle che stavano nascendo in altri pochi ambiti parrocchiali, tenta di far passare l'idea che la Chiesa vive e si scommette sul territorio e che è indispensabile il confronto  e il controllo delle istituzioni quali il Consiglio di quartiere e l'amministrazione comunale per la crescita di cittadinanze sempre più attive. Si cominciò allora, a Brancaccio, a dire apertamente che la mafia é una struttura di peccato e si cominciò a parlarne sia all'interno di mura sicure, sia all'esterno in occasione pubbliche, tra sguardi allibiti e consigli più o meno velati di lasciar perdere. Ricordo perfettamente, essendo allora membro del Consiglio di quartiere, il fastidio e lo stupore  di fronte a una situazione che sembrava sfuggire di mano a chi doveva controllare e riferire. Ci furono in quegli anni tantissime manifestazioni pubbliche che segnarono decisivi cambiamenti e c'é ancora una villetta rimasta in Via Brancaccio come segno di una settimana ecologica intitolata "Dall'Amazonia a Brancaccio". Ad alimentare tale svolta era un folto e motivato gruppo di giovani che non era stato disperso, dopo l'esperienza citata, anche per merito di un giovane e capace viceparroco che aveva retto per un anno, dal 1989 al 1990, la comunità parrocchiale.

E' anche questo l'ambiente che trova padre Puglisi quando viene nominato parroco della comunità di San Gaetano a Brancaccio. All'inizio il suo atteggiamento era quello di chi voleva capire, infatti procedette correttamente a una serie di confronti con le forze esistenti per capire su chi avrebbe potuto contare. Sembrava un buon inizio. Ma all'improvviso, consigliato da qualcuno che lo mise in un vicolo cieco e che gli sussurrò che quei giovani erano i soliti comunisti che volevano utilizzare la chiesa come una sezione di partito, decise di non tenere conto del patrimonio umano ed esperienziale che aveva trovato, e di seguire quella che un suo biografo ha chimato la terza via tra un cristianesimo più tradizionale e uno che guarda prevalentemente alla storia locale e globale. Ma in una città come Palermo, in un quartiere come Brancaccio, è un vero peccato, religioso e sociale non tenere conto di quanto di buono gia c'è e ricominciare dal nulla. E il fatto che Puglisi arrivò da solo negli ultimi suoi giorni ad affrontare la mafia significa anche che tra i tanti che dopo quel fare piazza pulita lo accompagnarono, molti lo lasciarono solo, eroe solitario immolato sul patibolo dei macellai di Cosa nostra. Certo, anche padre Puglisi cercò comunque di seguire un percorso di contaminazione col territorio, ne sono esempi la collaborazione con il Comitato intercondominiale di via Hazon e la creazione del centro Padre nostro. Ma queste stesse positive intuizioni, così come i contatti che ripetutamente cercava con il Consiglio di quartiere e il Comune, non sarebbero rimaste isolate le prime e inascoltate le seconde - e probabilmente lo terrebbero ancora con noi - se fossero state impiantate su un terreno fecondo che già esisteva e che poteva proteggere lo stesso parroco , non esponendolo alla fine come un combattente isolato e perciò facile da eliminare. Dopo la sua morte il Comitato intercondominiale è stato sostanzialmente messo da parte e lo stesso centro Padre nostro presenta oggi una situazione difficilmente decifrabile tenuto conto che il successore di Puglisi si è recentemente chiamato fuori da tale esperienza non essendo più, da parroco della parrocchia che fu di Puglisi, presidente pro-tempore del centro stesso.

E allora ricordiamo con commozione e rispetto un grande uomo come Pino Puglisi, ma rammentiamo che in questa città, a Brancaccio come allo Zen,  a Santa Chiara come a San Saverio, si deve essere capaci di costruire senza farsi prendere dalla tentazione che é più facile farlo facendo terra bruciata sul passato, perché quella terra arsa é una grossa ipoteca sul futuro. Ed é  anche un grande e ingenuo errore pensare che singoli uomini, per quanto forti e grandi, possano sostituire  percorsi di lungo periodo che invece devono per forza passare dalle mille e complesse stazioni di una crescita comune. Anche in città c'é una parte del movimento antimafia che stenta a capire tutto ciò, che continua a spaccare tutto con l'ascia,  che mette da una parte i buoni e dall'altra i cattivi,  che non riesce a concepire che c'è una parte della società a cui la mafia fa ribrezzo  ma che affronta il tutto in altro modo perché ha vissuto diversamente quest'ultimo decennio. Forse un modo per ben celebrare degnamente gli anniversari, oltre a celebrare liturgie importanti e significative ma che rischiano di rimare velleitarie e elitarie, è lasciarsi interrogare da essi, dalle esperienze degli uomini e delle donne che si ricordano, per trarre giudizi sul passato e per rispondere, con sempre  maggiore consapevolezza, alle domande dell'oggi e del domani.

   testo integrale tratto da "La Repubblica - Palermo" 14 settembre 2003