LA RICHIESTA DI AIUTO
IN IRAQ |
Se
l’Europa sceglie il silenzio di fronte a Bush |
di
Giulietto Chiesa* |
Se si vuole essere realisti
occorre prendere atto che esiste ormai una serie di divaricazioni
assai nette tra l'idea della Nato che alberga a Washington e quella
che vive - se non proprio a Bruxelles - in un certo numero di
capitali europee che contano. Il caso iracheno ne è un esempio. A
Istanbul, durante il vertice Nato, Bush ha chiesto l'aiuto degli
alleati al nuovo governo iracheno di Allawi. La risposta europea non
c'è stata. E anche questo è un modo di rispondere, pieno di
significati. Il perché è uno solo, evidente: l'Europa (soprattutto
quella delle sue opinioni pubbliche) non concorda con la strategia
americana nel Medio Oriente. Non c'è alcuna concordanza sulla tesi
che sia possibile - e doveroso - espandere la democrazia con la
forza (cioè esportare il modello americano tramite occupazione
militare). Non c'è affatto concordanza europea sull'incondizionato
sostegno dato dagli Stati Uniti al governo di Sharon e alla sua
politica verso lo Stato palestinese.
Si può prendere atto di questo ma non fare nient'altro che
registrare queste divaricazioni. Ma si può invece prendere
iniziative. Si tratta ora di vedere se l'Europa ha (o è in
condizione di avere abbastanza rapidamente) una propria idea della
Nato e delle sue funzioni nella presente - e cruciale - fase
storica. Se i suoi governi componenti rispettassero le proprie
opinioni pubbliche, non c'è dubbio che dovrebbero dire
esplicitamente a Washington che non può esserci alcun intervento
Nato in Iraq, visto che in nessuno dei paesi membri della Nato vi è
mai stata una maggioranza di consensi popolari all'impresa americana
in Iraq. Il silenzio non basta, perché è adesso che stanno
prendendo forma e vigore gli effetti devastanti dell'avventura
irachena di Bush nel mondo arabo e islamico e non sarebbe salutare
il rischio di essere identificati come alleati (o partecipanti) di
quell'avventura. Il silenzio europeo non è sufficiente neppure per
quanto concerne la questione israelo-palestinese. Qui l'Europa, più
che altrove, è stata in grado in passato di esprimere posizioni più
o meno diverse da quelle degli Stati Uniti, sebbene non sia mai
riuscita a tradurle in iniziativa politica concreta. Ma almeno è
riuscita a mantenere una propria fisionomia distinta agli occhi del
Terzo mondo e del mondo arabo in particolare.
Su entrambi i punti di crisi - che sono poi, di fatto, una sola
crisi a due facce - gli Stati Uniti, nostri alleati, stanno invece
sprofondando in una voragine che può compromettere per lungo tempo
il loro prestigio internazionale. L'Europa, tacendo, non li aiuterà
a uscirne. Questo dovrebbe essere compreso in primo luogo da coloro
che se ne dichiarano amici spesso e volentieri. E la questione è
tanto più vitale se si guarda alle notevoli ambiguità delle
dichiarazioni in materia del candidato democratico John Kerry. Il
che lascia pensare che, anche in caso di vittoria democratica nelle
presidenziali di novembre, la politica statunitense potrebbe non
subire mutamenti sostanziali rispetto al corso catastrofico che sta
seguendo.
*Parlamentare europeo
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testo integrale tratto da "La Stampa" - 16 luglio 2004 |