La regola del bastone

di Mikhail Gorbaciov

Da due settimane c’è guerra sulla terra dell’Iraq. Una guerra vera, niente affatto simile al «rapido intervento chirurgico», o alla vittoria con poco sangue versato su un territorio straniero, che vennero annunciati dai sostenitori dell’azione militare.

In luogo delle scene previste di entusiasmo popolare, delle distribuzioni di aiuti umanitari, noi vediamo sugli schermi televisivi panorami di colossali distruzioni; veniamo informati dai bollettini quotidiani delle stragi e del dolore dei civili. Non esiste una guerra «pulita», e una guerra che sia stata iniziata illegalmente, contro l’opinione della comunità internazionale, è due volte tragica.

Questa guerra non soltanto porta lutti e rovine al popolo dell’Iraq; non soltanto sconvolge la vita quotidiana di una regione cruciale, e del mondo nel suo insieme; essa mette a repentaglio tutte le istituzioni e strutture che hanno finora permesso alla comunità internazionale di vivere.

Si tratta delle Nazioni Unite, e del loro Consiglio di Sicurezza. Si tratta delle relazioni di partenariato e di cooperazione degli Stati Uniti con gli altri paesi e - la cosa più importante - del diritto internazionale come fondamento dell'ordine mondiale. Se esso viene meno, se i suoi principi e i suoi divieti vengono considerati privi di significato, inessenziali per l’unica superpotenza, allora come effetto noi dobbiamo registrare lo scatenarsi della forza, l’arbitrio, una generale assenza di regole. E finiremo per precipitare in una tale tempesta, in cui nemmeno l’America potrà cavarsela, e figuriamoci come potranno farlo quei pochi che saranno disposti ad appoggiarla in ogni sua decisione.

L’azione militare degli Stati Uniti e la dottrina americana dell’attacco preventivo hanno già scatenato la corsa al riarmo e hanno inasprito le situazioni in diverse regioni del pianeta. Non si deve essere stupiti di questo, perché se tutto viene risolto con il bastone, con la possanza militare, allora agli Stati non resta che dotarsi di armi fino all’inverosimile, incluse le armi di sterminio di massa. E nessuno può prevedere quanti di essi vorranno seguire l’esempio americano, regolando preventivamente i loro conti con i vicini e con i nemici. Un mondo di questo genere sarà mortalmente pericoloso per l'umanità.

Gl’iniziatori e gli esecutori di questa azione militare hanno inflitto un colpo al cuore stesso della democrazia, rifiutando di confrontarsi con l'opinione della stragrande maggioranza dei cittadini e con la stragrande maggioranza dei paesi. E, quando i principi e le procedure democratiche vengono ridotti a vuote formalità, allora per milioni di persone diventa inevitabile una reazione di rabbia, di frustrazione derivante da un'assenza di vie d'uscita. Allora diventa possibile, per molti, l’idea e la tentazione di «risposte asimmetriche», e si moltiplicano le file degli estremisti e dei terroristi. Davvero questo vogliono i dirigenti di un paese con il quale letteralmente il mondo intero fu solidale quando, l’11 settembre, esso fu colpito da una barbara azione terroristica?

In questa situazione non possiamo permetterci di cadere nel panico, né di arrenderci , accettando senza reagire ciò che sta accadendo. Sì, le Nazioni Unite hanno subito un colpo durissimo, anche se - va detto - nel caso avessero approvato una azione militare da nulla giustificata sarebbe stato ancora peggio. Ma adesso l’unica scelta giusta è quella di riportare la situazione nel solco delle Nazioni Unite. Certamente non per sanzionare, nemmeno parzialmente, a posteriori, ciò che è stato cominciato, bensì per trovare, con uno sforzo comune, una via d’uscita dalla tremenda situazione in cui ora si trova il mondo intero. Occorre una aperto dibattito attorno alla questione principale all’ordine del giorno: come fermare le azioni militari.

Ogni giorno che passa porta a milioni di cittadini iracheni altre privazioni, altra fame, altre ferite e malattie, e la prospettiva di combattimenti prolungati nelle città significa la morte per migliaia e migliaia di persone. Davvero si pensa di poter aiutare il popolo iracheno mentre tutto attorno esplodono bombe da diverse tonnellate, mentre Baghdad e altre città dell'Iraq sono sottoposte a quotidiani bombardamenti? Davvero si pensa che in queste condizioni sia possibile riprendere il negoziato in tema di «petrolio in cambio di generi alimentari»? E’ bene che si sgomberi il campo dalle illusioni: la guerra e l’azione caritatevole sono sempre state inconciliabili e tali rimangono tuttora.

Per questo torno a dire che la via d'uscita è soltanto una: fermare l'azione militare con una decisione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Ma, accanto all’esame dei problemi più urgenti, in primo luogo la salvezza delle persone, occorre cominciare subito una riflessione comune sul come salvare quelle istituzioni che hanno - seppure con fatica - tenuto assieme il mondo negli ultimi decenni. E’ vero che alcune tra esse sono invecchiate, reggendo a malapena le tensioni prodotte da vecchi e nuovi problemi. Ma questo non può essere il pretesto per una «leadership distruttiva», che si proponga di demolirli senza costruire al loro posto qualcosa di nuovo e di più solido. Si sbagliano coloro che pensano che il mondo possa essere guidato da un solo centro. Distruggendo le basi dell'ordine mondiale essi innescano un terremoto globale dal quale essi stessi saranno travolti.

L’America ha compiuto un grande, terribile errore. Un errore che può divenire irreparabile se vi insiste. E’ ora di ripensare, di tornare su una via ragionevole, verso la comunità delle nazioni, e tutti assieme decidere ciò che occorre fare perché il mondo non precipiti nel caos, perché le strutture che hanno consentito un sia pur minimo governo delle cose siano salvaguardate e adattate alle sfide del XXI secolo.

testo integrale tratto da "La Stampa" - 2 aprile 2003