"Tempo Perso -
Alla ricerca di
senso nel quotidiano"
24 OTTOBRE 2010 - XXX DOMENICA Del Tempo Ordinario - Anno C -
Prima lettura: Sir 35,15-17,20-22 Salmo: 33 Seconda lettura: 2Tm 4,6-8,16-18
VANGELO secondo Luca 19,1-10
In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima
presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: |
1. Con il vangelo di questa domenica ascoltiamo ancora un’altra parabola sulla preghiera che ha come protagonisti il fariseo e il pubblicano (Lc 18,9-14), entrambi credenti, ma con uno stile di vita diverso. Il fariseo è un “credente impegnato” – come si dice oggi – in un cammino di santità fondato sull’ascolto e sull’osservanza della Parola di Dio in sintonia con le interpretazioni dei padri. Certo, l’osservanza senza l’intenzione del cuore, cioè come puro fatto esteriore, è sempre una tentazione ricorrente presso i “credenti impegnati”, come pure il vanto, disprezzando tutti gli altri, della propria meritocrazia spirituale per pretendere da Dio la salvezza. Comunque non tutti i farisei, non tutti i “credenti impegnati” sono così. Questo lo sapeva anche Gesù. Il pubblicano, esattore delle tasse per conto dell’impero romano che occupava la Palestina, è anch’egli un credente, ma poco “impegnato” dal punto di vista della fede e molto impegnato dal punto di vista dell’accumulo del denaro, ricavato un po’ dagli interessi legati al lavoro di esattore e un po’ dalle estorsioni che non centravano nulla con i compiti del suo lavoro. Per questo era considerato un peccatore. Qualche pagina più avanti Luca ci parlerà di Zaccheo, il capo dei pubblicani (Lc 19,1-10): sarà il vangelo di domenica prossima. Gesù nella parabola narra di questi due personaggi in preghiera al Tempio per educarci ad accogliere la venuta del Figlio dell’Uomo, cioè la sua venuta di Signore crocifisso e risorto, e a discernere in mezzo a noi la presenza del regno di Dio. Del resto sono proprio i farisei che hanno posto a Gesù la domanda: «Quando verrà il regno di Dio?» (Lc 17,20). E Gesù aveva risposto che il regno di Dio non viene in modo spettacolare, perché il regno di Dio è in noi, è in mezzo a noi (Lc 17,21), manifesta la sua presenza efficace all’interno dei nostri tortuosi percorsi esistenziali, degli avvenimenti complessi e complicati della vita quotidiana. Perciò bisogna saper discernere la sua presenza. 2. Della parabola vorrei mettere in evidenza due particolarità che, esaminate con attenzione, aprono ad una lettura meno scontata della pagina evangelica, certamente meno usuale e, a mio modo di vedere, lontana da certi luoghi comuni. a) La prima particolarità riguarda la preghiera del pubblicano che davanti a Dio si riconosce essere un peccatore, uno che ha dato una direzione completamente fallimentare alla sua vita. Egli, che a differenza del fariseo non è un “credente impegnato”, non ha da presentare nulla davanti a Dio, nulla di cui ringraziare. Perciò con verità dice: «O Dio, sii propizio a me peccatore» (Lc 18,13). Si faccia attenzione: il pubblicano non dice «abbi pietà di me» (traduzione non esatta), ma «sii propizio a me». È un riferimento diretto al “propiziatorio”, cioè al coperchio che copriva l’arca dell’Alleanza custodita nel Santo dei Santi, vale a dire nella stanza più interna del Tempio. Nel Giorno dell’Espiazione, cioè nel Giorno del Perdono, il Sommo Sacerdote aspergeva il propiziatorio con il sangue del vittima del sacrificio (Es 25,17-22; Lv 16,14-16). Questo rito significava che Dio si impegna a perdonare gratuitamente e in modo incondizionato il peccato del suo popolo. Il “propiziatorio” è allora il segno iconico che visibilmente mostra l’immensa gratuità di Dio, il quale impegna tutta la sua vita (= il sangue asperso) e con una iniziativa che è tutta Sua, a salvare il popolo dai suoi fallimenti esistenziali riguardanti la relazione con Lui e con i fratelli. Possiamo dire allora che il pubblicano nel Tempio invoca il perdono di Dio, e sa che esso è un atto salvifico gratuito e incondizionato di Dio, non subordinato alla graduatoria demeriti collezionati, né dei meriti acquisiti o al vanto delle proprie opere… È interessante che il segno iconico del “propiziatorio” l’apostolo Paolo l’ha attribuito a Cristo: egli è il “propiziatorio” che Dio ha stabilito al fine di rendere giusti – gratuitamente e per mezzo del suo sangue, cioè della vita donata del Figlio – noi peccatori, noi che spesso conduciamo una vita fallimentare (Rm 3,25-26). Per Paolo, lui che era un fariseo!, è chiaro: tutti hanno peccato, tutti: giudei, giudeo-cristiani, etnico-cristiani e pagani, farisei e pubblicani…, ma tutti «sono giustificati gratuitamente da Dio per la sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù» (Rm 3,24). b) La seconda particolarità riguarda la considerazione sapienziale che Gesù pone al termine della parabola. Normalmente la prima parte del v. 14 viene tradotta così: «Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato… ». Dà l’idea del ribaltamento della situazione: dalla preghiera esce giustificato, ovvero perdonato, salvato e reso uomo giusto, soltanto il pubblicano e non il fariseo, il quale rimane nella condizione di com’era prima di salire al Tempio per la preghiera. Ma la prima parte del v. 14 può essere tradotta anche diversamente: «Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, accanto all’altro». Non solo grammaticalmente è possibile tradurre così, ma anche dal punto di vista della fede biblica. In questo modo si mette in risalto la gratuità del perdono di Dio, perché dalla preghiera escono cambiati sia il pubblicano che il fariseo. Il pubblicano
che si riconosce un peccatore, un fallito, Dio lo risolleva dalla sua
condizione di miseria spirituale, lo libera dalle sue angosce (prima lettura: Sir 35,15-17.20-22; salmo responsoriale: Sal
34). Il fariseo che si dichiara giusto (non
sbaglia del tutto se si leggono, ad esempio, i Salmi 1; 15; 24; e la seconda
lettura, in particolare la prima parte: 2Tm 4,6-8.16-18), ma poi in realtà non
lo dimostra perché disprezza tutti gli altri, in particolare i deboli, i
falliti, Dio lo riconduce sulla strada della giustizia ponendolo – in
conformità a Gesù, il vero Giusto (Lc 15,1-2; 19,7; 23,33.47) – accanto al pubblicano, a colui che poco
prima considerava con disprezzo un peccatore, un fallito. Soltanto per il perdono gratuito di Dio, e non per i demeriti dell’uno e i meriti
dell’altro, sono resi giusti il pubblicano e il fariseo. Entrambi escono dalla
preghiera con la propria vita ribaltata e cambiata: escono riconciliati come
figli e come fratelli, l’uno accanto
all’altro. Non è questo il segno concreto
che il Regno di Dio è in mezzo a noi e che il Signore viene per portare a
compimento la sua opera? Chiediamo, allora, al Signore che venga in
mezzo a noi e ci dia la grazia di lasciare che sia Lui a ribaltare e a cambiare
la nostra vita; anche la nostra vita di “cristiani impegnati”, ma a volte
rigidi nei confronti di chi sbaglia, a volte incapaci di attenzione e di
dialogo, a volte spregiudicati e intolleranti nel voler apparire giusti e pii… «Il
Signore è giudice e per lui non c’è preferenza di persone. Non è parziale a
danno del povero e ascolta la preghiera dell’oppresso» (Sir 35,15-16).
Egidio Palumbo |