"Tempo Perso - Alla ricerca di senso nel quotidiano"
28 OTTOBRE 2007 XXX DOMENICA del Tempo Ordinario - Anno C
"LECTIO" DEL VANGELO DELLA DOMENICA a cura di fr. Egidio Palumbo |
Prima lettura: Sir 35, 12-14.16-18 Salmo 33 Seconda lettura: 2 Tm 4,6-8.16-18
VANGELO
secondo Luca
18, 9-14
9Disse ancora questa parabola per alcuni che presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri: 10«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. 11Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano. 12Digiuno due volte la settimana e pago le decime di quanto possiedo. 13Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore. 14Io vi dico: questi tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro, perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato». |
Oranti stando accanto all’altro
1. La pagina del vangelo di questa domenica (Lc 18,9-14) continua la riflessione sapienziale sull’accoglienza del Regno di Dio attraverso la preghiera dei credenti che deve diventare vita. Qui con un’altra parabola evangelica, quella del fariseo e del pubblicano, si mette in risalto l’azione di Dio che ci giustifica gratuitamente, cioè che ci rende giusti: obbedienti alla sua Parola e accoglienti dell’altro, del diverso da noi. 2. La parabola ci parla di due personaggi: del fariseo e del pubblicano. Di solito il fariseo viene sempre considerato negativamente. Noi spesso, seguendo certi luoghi comuni, lo associamo in maniera assoluta a “ipocrita”, come se tutti i farisei, nessuno escluso, fossero ipocriti. In realtà “fariseo” significa “separato”, e nella Bibbia la “separazione” ha a che fare con la santità di Dio e dei credenti in Lui, i quali sono chiamati ad essere santi, a partecipare della Sua santità perché Lui è il Santo (Lv 11,44; 1Pt 1,15; 2,9), Lui è colui che ci comunica la vita, quel flusso vitale che ci permette di essere in comunione con Lui e con le altre creature umane. La “separazione” che è interna alla santità non ha nulla a che vedere con quelle forme di separazione religiose e/o sociali di tipo sacrale, tendenti a formare gruppi di credenti più perfetti di altri, o movimenti o gruppi elitari o caste di privilegiati. La santità del Dio di Abramo e di Gesù Cristo crea relazioni di comunione, perché Dio è Comunione. La “separazione” interna alla santità, invece, concerne la presa di distanza da ogni forma di mentalità idolatrica che adultera il nostro rapporto con il Dio tre volte Santo e disumanizza il mondo. I Farisei,dunque, erano persone che volevano vivere questo ideale di santità. Essi erano prevalentemente dei credenti laici, uomini di preghiera, che conducevano una vita semplice e frugale. Politicamente erano ostili alla dominazione romana della Palestina del tempo. Con il loro stile di vita e con la loro azione concreta si proponevano di: — far prendere coscienza della vocazione sacerdotale di tutto il popolo di Dio (e non solo della “classe sacerdotale”); — educare tutto il popolo di Dio all’ascolto e alla pratica di tutti i precetti della Torah (i primi cinque libri della Bibbia che è la Torah scritta), perché è con la pratica della Torah che si santifica Dio e lo si rende presente nel mondo; riconoscevano valore normativo anche alla Torah orale, cioè alla tradizione dei padri; — evidenziare che la pratica dei precetti della Torah non deve essere semplicemente esteriore, ma coinvolgere l’interiorità, deve essere fatta con consapevolezza, con tutta l’intenzione del cuore. È proprio su questo aspetto che il movimento dei Farisei ha un po’ degenerato, quando una parte dei suoi membri ha iniziato a dare importanza alle opere per se stesse, a prescindere dall’intenzione con la quale vengono compiute. C’è da dire che su questo erano critici molti degli stessi farisei, e non solo Gesù, il quale aveva simpatia per i Farisei, a motivo anche del fatto che credevano nella risurrezione; e poi, sempre su questo punto, critico lo sarà anche l’apostolo Paolo, il quale era un fariseo (Fil 3,5; At 23,6). L’altro personaggio della parabola evangelica è il pubblicano. Costui aveva in appalto la riscossione delle tasse civili dell’imperatore romano per conto delle amministrazioni locali; in genere non si accontentavano di riscuotere solo il dovuto, ma ne approfittavano per sé con azioni di usura. Per tutto questo erano considerati dei peccatori. 3. La parabola evangelica è narrata da Gesù «per alcuni che erano persuasi in se stessi di essere giusti e che disprezzavano tutti gli altri» (Lc 18,9). La parabola, allora, narra del fariseo e del pubblicano che salgono al Tempio per pregare davanti a Dio. C’è da dire che non solo la preghiera del pubblicano è corretta, perché riconosce il fallimento/peccato della propria vita di fronte a Dio e ai fratelli (Sal 51); è corretta pure quella del fariseo, il quale sta in piedi: posizione corretta per la preghiera, perché è la posizione del figlio di fronte a Dio Padre; ringrazia Dio, cioè fa eucaristia riconoscendo l’azione di Dio nella sua vita e riconoscendo i suoi comportamenti essere conformi alla Parola di Dio, a differenza dei ladri, degli ingiusti, degli adulteri e del pubblicano presente lì a pregare con lui. È la preghiera dell’orante dei Salmi 1; 15; 26, 119,97-100.113-115. È lo stesso atteggiamento dell’apostolo Paolo che ormai alla fine della sua vita, dove ha combattuto la “bella battaglia”, ha conservato la fede, e ora si attende dal Signore la “corona di giustizia” (seconda lettura: 2Tm 4,6-8.16-18). Quindi il fariseo e il pubblicano entrambi si rivolgono a Dio in modo corretto. E se si fa attenzione, noteremo che anche nella nostra celebrazione eucaristica troviamo sia l’atteggiamento del pubblicano che quello del fariseo: infatti, siamo chiamati a riconoscere il nostro fallimento/peccato davanti a Dio e ai fratelli, e poi, dopo l’ascolto della Parola, siamo chiamati a ringraziare Dio per mezzo di Cristo nello Spirito con la grande preghiera eucaristica che si proclama stando in piedi. Non solo, nella celebrazione eucaristica è prevista la colletta per i poveri. E non si dimentichi che ci si prepara alla celebrazione eucaristica con il digiuno. 4. E allora, dove sta il problema? Dobbiamo soffermarci su Lc 18,14. La prima parte di questo versetto nelle nostre Bibbie la troviamo tradotta così: «Io vi dico: questi scese a casa sua giustificato, a differenza dell’altro…». Una simile traduzione fa intendere che fu giustificato il pubblicano e non il fariseo, ovvero fu più meritevole davanti a Dio la preghiera del pubblicano che si riconosce peccatore e non quella del fariseo. Questa interpretazione fa leva sulla teologia del merito, certamente anche dal punto di vista letterario può essere una interpretazione possibile. Ma è letteralmente possibile un’altra traduzione: «Io vi dico: questi scese a casa sua giustificato accanto all’altro…». Qui scompare la teologia del merito e ci si apre alla teologia della grazia, come tutto il Nuovo Testamento insegna. Noi non siamo giustificati, cioè salvati, resi giusti da Dio in Cristo Gesù per i nostri meriti: ovvero perché ci riconosciamo peccatori e per ciò stesso meritevoli della giustificazione; oppure per le nostre opere di bene, per la quantità e la qualità delle nostre preghiere, ecc. No, noi siamo resi giusti in Cristo Gesù gratuitamente, a motivo dell’amore gratuito e fedele che Dio ha manifestato in Cristo Gesù. Così, ad esempio, scrive Paolo: «Mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi nel tempo stabilito. Ora, a stento si trova chi sia disposto a morire per un giusto; forse ci può essere chi ha il coraggio di morire per una persona dabbene. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi, perché mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. A maggior ragione ora giustificati per il suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui. Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio, per mezzo della morte del Figlio suo, molto più ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita» (Rm 5,6-10). La giustificazione, la salvezza precede («mentre eravamo ancora peccatori…») la nostra conversione e le nostre opere, perché è grazia di Dio, è Suo dono gratuito. E se noi siamo capaci di conversione e di opere buone, non è per i nostri meriti, ma perché siamo stati sorpresi, sconvolti, toccati, spinti dall’amore gratuito e incondizionato di Dio in Cristo Gesù. E non va dimenticato che essere giustificati significa diventare giusti secondo la giustizia di Dio, il quale è giusto perché «non è parziale con nessuno contro il povero», anzi, perché si prende cura del debole e del povero (prima lettura: Sir 35,12-14.16-18; salmo responsoriale: Sal 34). Ebbene, se il fariseo e il pubblicano salgono al Tempio separatamente, alla fine della preghiera escono dal Tempio l’uno accanto all’altro. La preghiera ha reso giusto il cuore di entrambi: il cuore del fariseo, perché ora può accogliere l’altro, il diverso da lui, il fallito, il debole; il cuore del pubblicano, perché ora non sfrutta più gli altri. Entrambi Dio li ha gratuitamente giustificati rendendoli piccoli, umili («chi si esalta, sarà [da Dio] umiliato e chi si umilia sarà [da Dio] esaltato») e per questo capaci di uscire dalla preghiera come fratelli. 5. Per accogliere il Regno di Dio che viene e che sta in mezzo a noi è importante pregare, ma è altresì importante verificare come si esce dalla preghiera e si scende nella vita quotidiana: se sempre con la stessa mentalità e lo stesso stile di vita, oppure se resi giusti, non dalle nostre giustificazioni, ma dalla grazia di Dio in Cristo Gesù. La differenza è sostanziale. Che la nostra preghiera, sia quella personale che quella comunitaria ed ecclesiale, faccia la verità nella nostra vita, affinché tutta la nostra vita diventi preghiera accanto all’altro, e in particolare ai deboli e ai falliti della storia. Egidio Palumbo Barcellona PG (ME)
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