"Tempo Perso - Alla ricerca di senso nel quotidiano"
2 MARZO 2008 IV DOMENICA DI QUARESIMA - ANNO A -
"LECTIO" DEL VANGELO DELLA DOMENICA a cura di fr. Egidio Palumbo |
Prima lettura:
1Sam 16,1.4.6-7.10-13 Salmo
22 Seconda
lettura: Ef 5,8-14
VANGELO secondo Giovanni 9,1-41 1Passando vide un uomo cieco dalla
nascita 2e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì,
chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?». 3Rispose
Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si
manifestassero in lui le opere di Dio. 4Dobbiamo
compiere le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene
la notte, quando nessuno può più operare. 5Finché
sono nel mondo, sono la luce del mondo».
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Guardare il mondo con gli occhi di Dio 1. L’itinerario battesimale della Quaresima con questa domenica si sofferma, con la pagina giovannea del cieco nato, sul segno della Luce che illumina l’esistenza dell’umanità (Gv 9,1-41). C’è da tenere presente un duplice contesto: quello della pagina biblica e quello inerente alla liturgia di questa domenica. Riguardo alla pagina biblica dell’evangelo di Giovanni, tra le varie particolarità presenti nel testo, due, per il momento, attirano l’attenzione: la luce (Gv 9,5) e la piscina di Siloe (Gv 9,7), una grande vasca che riceveva l’acqua da canale costruito (al tempo del re Ezechia: 2Re 20,20) nella roccia della collina del Tempio per “inviare” l’acqua alla città di Gerusalemme; la parola “Siloe” significa, infatti, “canale inviante” o “”acqua inviata”: da qui l’interpretazione che ne dà l’evangelista Giovanni come «Inviato», esplicito riferimento a Cristo Gesù, l’Inviato del Padre (Gv 9,4; 7,29; 8,42). Ancora oggi per la Chiesa Bizantina questa la piscina o vasca di Siloe è considerata “fonte battesimale”. Ora, le parole “Luce” e “ Acqua” ci rinviano alle pagine precedenti di Gv 7,37-38, dove è scritto: «Nell’ultimo giorno, il grande giorno della festa, Gesù levatosi in piedi esclamò ad alta voce: Chi ha sete venga a me e beva chi crede in me; come dice la Scrittura: fiumi di acqua viva sgorgheranno dal suo seno»; e a Gv 8,12, dove è scritto: «Gesù parlò loro: Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita». In Gv 7,37 si parla di festa. Si tratta della Festa delle Capanne (Sukkot: Es 23,16; Lv 23,33-44; Nm 29,12-39; Dt 16,13-17; 31,10-13; Ne 8; Zc 14,16-19), che ancora oggi festeggiano gli ebrei. Questa antica festa liturgica si celebra a fine estate-inizio autunno e dura otto giorni. Si ringrazia Dio e si gioisce in Lui per il raccolto dei frutti della terra, poiché la terra è dono gratuito di Dio. Questo senso di gratuità, vissuto nella prospettiva dell’Alleanza, celebra la memoria del cammino del popolo di Dio nel deserto verso il Sinai e verso la terra promessa: nel deserto infatti dimoravano in capanne, cioè in luoghi di abitazione provvisori, nel deserto si sono saziati dei frutti della terra, nel deserto hanno ricevuto il dono della Torah, nel deserto sono stati guidati da Dio come loro Pastore e nel deserto hanno sperimentato la relazione sponsale con Dio. Di tutto questo fa memoria-attualizzazione la Festa delle Capanne. Per cui in questi otto giorni si dimora sotto le capanne, si ringrazia e si gioisce per i frutti della terra e in particolare per il frutto più bello: il dono della Torah. Quando esisteva il Tempio, a partire dal secondo giorno di festa si attingeva l’acqua alla fonte di Siloe e si portava in processione fino al Tempio. Questo gesto suscitava una grande gioia ed era accompagnato dal suono del flauto e, all’ottavo giorno, dall’accensione di luci (torce) che illuminavano tutta Gerusalemme. È facile intuire che l’acqua, oltre i frutti della terra, evocava anche e soprattutto il dono della Torah, il dono della Parola di Dio; e anche la luce evocava la Torah, dono di Dio per illuminare il cammino del suo popolo (Sal 119,105; Pr 6,23; è bene ricordare che all’interno della parola Torah vi sono due lettere, “or”, parola che in ebraico significa “luce”). Ritornando all’evangelo di Giovanni, la narrazione dei capitoli 7; 8; 9; fino a 10,21 si svolge tutta nel contesto della Festa delle Capanne. Per cui la narrazione del cieco nato (Gv 9) è da collocare biblicamente nel contesto di questa festa. Riguardo al contesto liturgico del nostro itinerario quaresimale, per antica tradizione questa quarta domenica è detta “laetare”: è la domenica nella quale siamo esortati a gioire nel Signore Gesù, perché, vicini alla Pasqua, in Lui e con Lui possiamo ritornare ad essere il popolo amato di Dio, la Sua Sposa amata fino al dono di sé. Non siamo molto lontani dalla gioia che caratterizza la Festa delle Capanne. 2. Uno dei protagonisti di Gv 9 è il “cieco nato”. Ma qual è la sua cecità? All’inizio della pagina si afferma chiaramente che la sua cecità non è il frutto del suo peccato (Gv 9,2-3). Alla fine di Gv 9 viene menzionata un’altra condizione di cecità, questa sì frutto del peccato: «Gesù allora disse: Io sono venuto in questo mondo per giudicare, perché coloro che non vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi. Alcuni dei farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero: Siamo forse ciechi anche noi?. Gesù rispose loro: Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: Noi vediamo, il vostro peccato rimane» (vv. 39-41). Il “cieco nato” non ha peccato, non è un fallito a causa della sua cecità. Invece abitano nel loro peccato, nel loro fallimento i farisei, questi credenti (certamente un parte e non tutti) che pretendono di vedere. I veri ciechi sono costoro. Dunque, si tratta non di una cecità fisica, ma di una “cecità” strettamente connessa alla nostra condizione di creature umane. Quest’«uomo cieco dalla nascita» (Gv 9,1) rappresenta la nostra condizione umana fatta di persone che hanno una loro particolare visione della realtà, un loro particolare modo di vedere se stessi, gli altri, Dio, il mondo. Noi creature umane nasciamo e cresciamo così. E capita, nel cammino esistenziale di ognuno di noi, di arrivare ad un punto in cui ci riscopriamo insoddisfatti, in cui avvertiamo che in realtà abbiamo la “vista corta”, che il nostro “campo visivo” sulla realtà è un po’ ristretto. E allora, come il “cieco nato” ci facciamo “mendicanti” (Gv 9,8), chiediamo un aiuto ad altri, ci mettiamo in ricerca... 3. Nel cammino della nostra ricerca veniamo a scoprire che già un Altro, da tempo, si è messo in cammino verso di noi, si è messo alla nostra ricerca: «Passando, vide un uomo cieco dalla nascita» (Gv 9,1). È Gesù che passa e per primo vede l’“uomo cieco dalla nascita”. Lo vede perché lo ama. Perciò prende l’iniziativa e si mette all’opera per compiere le opere del Padre che lo ha inviato. Qual è l’opera che Gesù compie nei confronti di questa nostra umanità dalla “vista corta”? — Impasta del fango della terra con la saliva (Gv 9,6): è un gesto che parla del Signore che si è impastato nella nostra umanità (Gv 1,14); e questa nostra umanità ora la riplasma con la sua, evocando il Dio Creatore (Gen 2,7; Is 64,7; 29,15-23). — Spalma il fango sugli occhi del cieco (Gv 9,6): è un gesto che assomiglia ad una unzione (2Cor 1,21) che acceca la cecità perché “veda in modo diverso” da come vedeva prima. — Invia il cieco a lavarsi nella piscina di Siloe, nella vasca dell’Inviato (Gv 9,7): è un gesto battesimale di immersione nell’Inviato, cioè di radicamento della propria vita in Cristo uomo nuovo (Rm 6,3; Ef 4,20-24). Questa opera “terapeutica” di accecamento della nostra cecità è l’opera della Pasqua del Signore: è la morte dell’uomo vecchio e la rinascita dell’uomo in Cristo Gesù. 4. Ci sono altri particolari nella pagina del vangelo che evidenziano ancora meglio gli effetti vitali (non miracolistici) dell’opera pasquale. Quest’uomo, reimpastato nell’umanità di Cristo, e ricevendo la sua Unzione (prima lettura: 1Sam 16,1.4.6-7.10-13) e la sua Luce (seconda lettura: Ef 5,8-14), ovvero la sua Sapienza di vita, adesso assomiglia a Cristo (Gv 9,9; Rm 8,29); dice addirittura «Sono io» (Gv 9,9): è un “altro Cristo”. Infatti, il suo stile di vita sta cambiando, la sua visione sul mondo, sugli altri, su se stesso e su Dio sta diventando più larga, abbraccia orizzonti più vasti (Gv 9,11.15.18 parla di “alzare lo sguardo”); sta cominciando a “vedere con gli occhi di Dio”, il quale non guarda l’apparenza, ma il cuore (prima lettura). E proprio perché la sua vita comincia ad assomigliare a Cristo, come Cristo, anch’egli è sottoposto ad un processo assillante, fino ad essere cacciato fuori, espulso dalla comunità (Gv 9,34), proprio come avverrà a Cristo (Eb 13,12). Nel mezzo del processo, nel mezzo delle situazioni difficili e complesse della vita, la statura umana e di fede (Gv 9,21.23; Ef 4,13) di quest’uomo non si blocca: non regredisce per viltà, non diventa un reazionario conservatore per opportunismo, né si incattivisce contro i suoi inquisitori, ma la sua statura cresce e matura in umanità e nella fede: prima riconosce Gesù come uomo ma non sa dov’è (Gv 9,11), poi lo riconosce come profeta (Gv 9,17), poi riconosce che viene da Dio (Gv 9,30-33), infine lo incontra e l’adora come unico Signore (Gv 9,35-38) e Pastore (Gv 10,1-21).
5. Il popolo di Dio in questo mondo — e in esso ogni cristiano —, a motivo della sua vocazione battesimale, dovrebbe essere un popolo di “veggenti” nel senso autentico della parola: guardare il mondo con gli “occhi di Dio”, “vedere” realtà che altri non riescono a vedere, scrutare e discernere nella storia istanze e segni che altri fanno fatica a percepire. Ma prima di tutto questo, dovrebbe ogni giorno con umiltà domandarsi: qual è la qualità del nostro sguardo su Dio, su noi stessi, sugli altri e sul mondo? Guardiamo al cuore oppure all’apparenza…? Stiamo crescendo come “figli della luce” in umanità e nella fede? Oppure stiamo regredendo…?
Egidio Palumbo Barcellona PG (ME)
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