LA FRATTURA RELIGIOSA di Angelo Panebianco Quando la guerra sarà finita, speriamo presto, dovrà pur riaprirsi il dialogo fra la potenza secolare (gli Stati Uniti) e le potenze spirituali (la Chiesa di Roma e le altre Chiese cristiane) d'Occidente. Per la seconda volta in un decennio, l'Iraq di Saddam è stato causa di un equivoco. Oggi, come all'epoca della guerra del 1991, l'opposizione del Papa all'intervento americano alimenta la leggenda di un Vaticano «pacifista», di una Chiesa contraria per dottrina all'uso della forza. Oggi, come allora, la posizione della chiesa viene equivocata. Non è pacifismo di principio nè una controversia sulla questione della «guerra giusta» (l'elogio del Papa al movimento pacifista non sembra configurare una «svolta». E' la riaffermazione della tradizionale vocazione pacificatrice, non pacifista, della Chiesa) a contrapporre la Chiesa di Roma e, sulla sua scia, le altre Chiese cristiane, al governo degli Usa sulla questione irachena: é un dissenso radicale sul modo di affrontare lo «scontro di civiltà». Oggi, come nel 1991, ciò che la Chiesa teme é che l'urto fra l'Occidente e alcuni regimi politici sorti nel mondo islamico metta in pericolo la sorte delle tante comunità cristiane, già ora spesso perseguitate, in tutti quei Paesi, del Medio Oriente, dell'Africa e dell'Asia, ove convivono con maggioranze mussulmane. Questa preoccupazione della Chiesa di Roma, e delle altre Chiese, è sacrosanta. Merita molto più che formale rispetto. Richiede di essere assunta fino in fondo come una «propria» preoccupazione dal mondo occidentale secolare. Snobbare, come spesso si tende a fare, questa preoccupazione, lasciare le Chiese cristiane del tutto sole di fronte a questo enorme problema è un errore. E' proprio perché uno scontro di civiltà (voluto e alimentato dall'islamismo radicale) è in atto, che la cura per la sorte delle (spesso consistenti) minoranze cristiane deve diventare parte integrante delle politiche occidentali. E' ora che i rapporti fra l'Occidente e i Paesi islamici comincino ad essere regolati anche in base al trattamento che quei Paesi riservano ai cristiani (a cominciare dal livello di protezione che i governi sono disposti ad assicurare a quelle comunità rispetto alle aggressioni dei fanatici religiosi). Ma cosi come l'Occidente, e il governo americano per primo, devono riconoscere la validità della preoccupazione dei cristiani, anche le Chiese di Roma e le altre devono riconoscere all'Occidente che esso non può disarmare, che uno scontro come quello in atto non può richiedere solo l'uso della carota ma, talvolta, malauguratamente, anche quello del bastone. Soprattutto, devono riconoscere quanto di giusto c'é nella convinzione su cui, dopo l'11 settembre 2001, va concordando la parte più lungimirante dell'Occidente, e su cui, ad esempio, insiste Tony Blair: solo mettendo fuori gioco i tiranni (colpevolmente sostenuti in passato dagli occidentali) che porta alla democrazia e ai diritti di libertà,lo scontro di civiltà porta potrà essere alla fine disinnescato e l'islamismo radicale sconfitto. Primo banco di prova saranno certamente l'assetto post-bellico dell'Iraq e gli effetti della scomparsa di Saddam sul Medio Oriente ( a cominciare dal conflitto israele-palestinese). Dalla ricomposizione del dissidio hanno da guadagnare Chiese e governi. Le prime perchè alla lunga si indeboliscono se non possono contare sull'appoggio del potere secolare. I secondi perchè non possono privarsi senza gravi rischi della sapienza di istituzioni spesso meglio attrezzate della politica a fronteggiare certi effetti perversi del confronto fra le civiltà. Editoriale del "Corriere della Sera" - 29 marzo 2003
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