La democrazia
fragile della superpotenza
di Giorgio
Bocca
«QUESTA guerra era meglio non cominciarla», dice Romano Prodi. Questa
guerra, dovrebbero dire le persone ragionevoli anche nei giorni della
vittoria militare americana, sarebbe meglio non continuarla, i suoi costi
sono enormi, i suoi effetti negativi di lunga e disastrosa durata. La
propaganda sulla guerra fatta per "rendere il mondo migliore"
non sembra aver avuto successo, ha prodotto una serie di spaccature, di
contraddizioni che dureranno negli anni. La prima è quella che ciascuno
di noi, pacifista o interventista che sia, si porta dentro con un senso di
impotenza e anche di vergogna: si è contro la guerra disastrosa e feroce
ma si è anche per la conservazione del privilegio di appartenere al mondo
che "sta sopra", dei ricchi e dei sapienti.
E di questa ambiguità è partecipe anche la sinistra. La spaccatura più
grave, il grande paradosso, è la pretesa di portare la democrazia a chi
non la vuole anche a costo di rinunciare o a limitare la nostra. Le
limitazioni in corso alla democrazia liberale vengono giustificate dalla
minaccia terroristica: la sicurezza viene prima della giustizia, prima dei
diritti umani. Militari e poliziotti, negli Stati Uniti e altrove sono
autorizzati a perquisire le case dei sospetti, a frugare nei loro archivi,
nelle memorie dei computer senza dover provare che sono dei sovversivi,
dei terroristi basta dire che sono pericolosi o utili alle indagini.
Provvedimenti eccezionali, temporanei si dice. Ma intanto si creano negli
Stati Uniti, il paese guida della democrazia, strutture poliziesche che
dureranno, un ministero degli Interni mai esistito prima con
centosettantamila funzionari che stanno costruendo una rete di controlli
universale, nelle dogane, nelle comunicazioni, persino nelle biblioteche
per sapere cosa legge la gente. La necessità di difendere il paese dal
terrorismo ha riportato l´America indietro di cinquanta anni nei diritti
civili e umani, ai tempi di Sacco e Vanzetti o del senatore McCarty. Il
Patriot act del 26 ottobre del 2001 abolisce l´Habeas corpus e autorizza
il governo a definire terrorista una associazione nazionale o straniera a
suo insindacabile giudizio. Il 17 novembre del 2001, a pochi giorni dall´attacco
terroristico alle due Torri, è stato votato il Military order che
autorizza il governo a istruire i processi straordinari a nominare i
giudici delle corti speciali che possono condannare a morte o all´ergastolo.
C´è chi come Burgess esorta l´America a «liberarsi degli intralci
della democrazia, a diventare impero», ma è un´esortazione di cui l´amministrazione
Bush sembra non aver bisogno se ha dato alla Cia e ad altre polizie
licenza di tortura, prima nella prigione di Guantanamo, poi dovunque,
anche nell´isola di Diego Garcia, spersa nell´Oceano Indiano, un buco
nero fuori da ogni diritto nazionale e internazionale dove si pratica la
«tortura bianca», quella senza macchie di sangue ma anche più feroce,
più raffinata, fino alla disintegrazione fisica e mentale del
prigioniero. La marcia verso la libertà, verso la democrazia è lunga e
faticosa, ma la retromarcia verso l´autoritarismo è spedita e
inarrestabile. La cosa più preoccupante del nuovo corso è che non solo
le leggi poliziesche e inquisitorie sono state votate dalla maggioranza
dei rappresentanti ma sono sostenute dalla pubblica opinione. Di recente,
nell´Oregon, si è proposta una nuova legge che equipara i pacifisti ai
fiancheggiatori dei terroristi! Preoccupa l´emergere di un rifiuto di
massa della democrazia da parte del ceto medio indifferenziato e di una
voglia, latente per anni e ora visibile, delle semplificazioni
autoritarie. Non è solo la guerra a cambiare il mondo, ma essa fa la sua
parte nel favorire, nel rafforzare le insofferenze dei forti per una
democrazia difficile, fragile, per affidarsi alla illusoria efficienza
della forza. Il mondo globalizzato tende a una "anarchia sotto
censura": politici e finanzieri, militari e scienziati fanno quello
che vogliono, ma l´informazione - anche la libera, mitica informazione
americana - va sorvegliata. Ai tempi della guerra del Golfo la Cnn era
sinonimo di informazione immediata oggettiva, super partes, in cui Peter
Arnett trasmetteva da Bagdad mentre gli Stati Uniti la bombardavano. Oggi
Peter Arnett è stato licenziato in tronco perché ha criticato il
Pentagono, i cronisti della Cnn sono stati incorporati nelle unità
militari e Madeleine Albright, già segretaria di Stato, dice «la Cnn è
il nuovo rappresentante americano nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni
Unite», per dire che ha un ruolo governativo.
Anche nei giornali e nelle televisioni americane è diventato pericoloso
mettersi in posizione critica verso i due padroni del sistema: i politici
al potere e i militari ai loro ordini. Non a caso le cronache della guerra
sono dominate dalle dichiarazioni dei ministri e dei generali. La
saldatura fra governanti e informatori è un fatto compiuto, quando un
ministro potente come Rumsfeld tiene una conferenza stampa tutto è già
amichevolmente, cortigianamente combinato: si sa chi farà le prime
domande, il ministro si rivolge ai giornalisti per nome come se fossero
vecchi amici, l´etica professionale è una bella favola del passato. È
il tempo dei cortigiani, degli yes men, dei funzionari della propaganda,
quelli che arrivano in una caverna dell´Afghanistan già visitata da
migliaia di cronisti e di soldati e vi scoprono centoventi cassette di
Osama Bin Laden e persino i resti di un cagnolino ucciso dalle armi
tossiche.
Non è una invenzione di Bush. Nella prima guerra mondiale il nostro
servizio di propaganda, retorico e dannunziano, faceva scrivere sui muri,
sbriciolati dalle bombe lungo il Piave, «meglio vivere un giorno da leone
che cento anni da pecora». Pensando di nascondere i disertori che erano
centinaia di migliaia e le decimazioni dei carabinieri che cercavano di
sostituire il coraggio con il terrore.
Il terrorismo islamico non lo hanno inventato gli americani, ne sono stati
crudelmente colpiti, ma uno dei rischi di questa guerra è di essere anch´essa
terroristica, di rispondere al terrorismo con il terrorismo. Il grande
sovversivo Lenin aveva intuito che il terrorismo rivoluzionario correva il
rischio di diventare terrorismo di Stato, ma non pare che gli attuali
signori della guerra abbiano preoccupazioni simili, continuano nell´uso
terroristico dei bombardamenti a tappeto. Per far finire presto la guerra?
Si sarebbe tentati di augurarsi una guerra breve se la dottrina della
guerra continua non progettasse già nuovi assalti alla Siria, all´Iran,
a tutti gli Stati canaglia. È chiaro che la risposta al terrorismo con un
terrorismo più forte è una tentazione irresistibile. Dicono i realisti
che la guerra è un "dato di fatto" fuori da ogni discussione,
ma incomincia ad essere anche più chiaro che è la premessa all´autodistruzione
della specie umana e rassegnarvisi non è un rimedio.
Agghiacciante l´episodio del soldato americano che spara sulle donne e
sui bambini che avanzano verso un posto di blocco e dice «sarà una
scelta feroce, disumana ma non ne conosco altra per ritrovarmi vivo domani»
.
Questa guerra era meglio non cominciarla e sarebbe una follia continuarla.
Nei sessanta anni dopo il massacro senza senso della seconda guerra
mondiale eravamo riusciti a mettere in piedi le prime strutture di un
diritto internazionale, di un rifiuto della guerra: le Nazioni Unite e l´Unione
europea. Le Nazioni Unite, per fragili e inefficienti che siano, sono
riuscite in questi anni a mantenere viva l´idea di legittimità nei
rapporti internazionali, di una legittima e pacifica soluzione ai loro
contrasti.
L´Unione europea è stata sulla via della pace un successo formidabile:
ha dimostrato che la guerra non è come diceva von Clausewitz la
necessaria, inevitabile e quasi provvidenziale «continuazione della
politica». Ha dimostrato il contrario, che la sua pretesa necessità è
una credenza arcaica, che paesi usciti da guerre millenarie, imbevuti di
una cultura di guerra possono non solo vivere senza guerra ma essere quasi
increduli che ci siano state, che inglesi, francesi, tedeschi, italiani,
spagnoli abbiano potuto scannarsi a vicenda fino al punto di fabbricare
con le loro mani la decadenza dell´Europa. La guerra, dicono i nostri
interventisti, quelli che la fanno fare agli altri, è un dato di fatto e
che perciò è inutile discuterci sopra, o la si fa o la si guarda o la si
accetta o la si subisce. Ma c´è anche, per la prima volta nella storia
dell´uomo un´idea che si sta diffondendo: che la guerra sia vecchia,
autolesionista, infantile, che l´uso strumentale che ne fanno i potenti o
gli aspiranti alla potenza non sia commisurato al progresso scientifico,
tecnologico, che le discussioni sulle guerre preventive e continue siano
tutto sommato retrive e frustranti, perché dimostrano la nostra
impotenza. La guerra dei potenti è odiosa perché ci fa vivere nella
ignoranza e nella impotenza, nel limbo angosciante di quelli che
"stanno sotto", cioè la maggioranza del genere umano.
Uno dei pochi effetti positivi di questa guerra è il ridimensionamento
del nostro Piccolo Cesare, smascherato come opportunista che si barcamena
fra i potenti cercando di fingersi dei loro. Anche lui impotente a contare
in questa guerra, re travicello fra il pacifismo del papa e l´arroganza
bellica del suo amico Bush. E di restituirci a una visione più realistica
dell´America e dei miti americani per difenderla dalle sue tentazioni da
basso impero.
testo integrale tratto da "La Repubblica" - 7 Aprile
2003