LA CULTURA DELLA PACE E' DA COSTRUIRE

di Nino Alongi

Per quanti credenti e non credenti si battono per la pace è sempre gradita una rievocazione storica é sempre gradita una rievocazione dell'enciclica Pacem in Terris e del suo autore il beato Giovanni XXIII. E' quello che é avvenuto a Palermo venerdì scorso all'auditorio del Gonzaga nell'incontro  con l'arcivescovo Raffaele Martino, per lunghi anni delegato pontificio presso l'ONU. L'iniziativa molto partecipata, rientrava nell'attività formativa che da tempo il Centro educativo ignaziano svolge in collaborazione con l'Istituto di formazione Pedro Arrupe. Il ricordo dell'importante documento pontificio sulla pace é stata una occasione preziosa per tornare con la memoria ad un periodo storico tra i più drammatici della guerra fredda e per riflettere sulla situazione altrettanto drammatica nella quale ci siamo cacciati oggi con l'invasione dell'Iraq. Papa Giovanni XXIII  credeva  fermamente che la pace fosse sempre possibile e ne identificò le condizioni essenziali in quattro precise esigenze dell'animo umano: la verità, la giustizia,  l'amore e la libertà. Accoglierle significa - aggiungeva il Papa - costruire un ordine mondiale fondato sul principio che ogni essere umano è persona, cioè una natura dotata di intelligenza e di volontà libera e quindi é soggetto di diritti e di doveri che scaturiscono immediatamente e simultaneamente dalla sua stessa natura:diritti e doveri che sono perciò  universali, inviolabili, inalienabili.  Questa concezione si legava alla situazione che in quel momento, siamo agli inizi degli anni Sessanta, il mondo viveva, tra timori e aspirazioni,  diviso da due blocchi contrapposti, ma pur sempre unito.  La Pacem in Terris riassumeva in qualche misura la condizione umana di quel tempo e ne coglieva  ed enfatizzava i bisogni più sentiti.  Per i credenti quella enciclica fu una lezione e un monito:  una autentica esperienza di fede non é mai disgiunta da un concreto impegno nella storia e nel mondo in cui il cristiano é chiamato a dare ragione della propria speranza.

A questa posizione  - ha sostenuto  monsignor Martino - é rimasta fedele anche la Chiesa di Giovanni Paolo II . Se quarant'anni fa la pace era messa in pericolo dai rigidi blocchi contrapposti ora può esserlo dalla mancanza di dialogo tra gli Stati e i popoli con cui  non sempre si riesce  a sostituire la rigida divisione del  mondo in zone di influenza. Se quarant'anni fa prevaleva il fondamentalismo politico oggi dobbiamo fare i conti con quello religioso, altrettanto devastante. Se quarant'anni fa  la causa della pace poteva essere servita valorizzando le differenze per farle emergere dal mondo appiattito dalle ideologie dei regimi autoritari e totalitari oggi é giunto il momento di valorizzare l'identità come fondamento e misura delle stesse differenze. C'é un tempo per imparare dalla diversità. C'é un tempo per imparare dalla comunanza. In questo nostro tempo é quest'ultima esperienza a prevalere.

Quali sono oggi - si è chiesto monsignor Martino - i principali motivi dell'indebolimento della pace?

L'esistenza di profondi squilibri tra i popoli sul piano dei diritti, delle risorse, delle opportunità di vita;

la mancanza di reciproco rispetto e di fiducia nelle relazioni internazionali, il non tener conto della parola data, il non mantenere le promesse.

Questa condizione discende in gran parte dalla divisione tra le esigenze della morale e quelle della politica. Si dimentica che la politica é una attività umana ed quindi soggetta al giudizio morale; e questo non solo all'interno degli Stati ma anche nelle relazioni internazionali tra gli Stati. La guerra preventiva é immorale, combattere il terrorismo senza chiedersi le ragioni o occultarle è da irresponsabili. Tornare, allora, alla Pacem in Terris, come invita  Giovanni Paolo II, significa sviluppare una cultura della pace che parta dalla difesa della Legge morale scritta nel cuore dell'uomo.

E' da chiedersi se questo impegno, per molti versi esemplare, della gerarchia nella difesa della pace stia coinvolgendo realmente le comunità ecclesiali: le parrocchie, le piccole e grandi  comunità monastiche, le organizzazioni di volontariato. C'é attenzione, ma non mancano le perplessità. Siamo lontani ancora da un pieno coinvolgimento. Ci vorrà del tempo. Invero, non bastano le esortazioni, per cambiare i cuori degli uomini ci vuole una serie conversione culturale.

Bisogna far crescere l'interesse per una lettura attenta della realtà che va indagata partendo dalla complessità dei problemi che presenta. 

Bisogna liberarsi da quei radicamenti ideologici o semplici «luoghi comuni» che ancora ci portiamo dietro e che continuano a condizionarci.

E bisogna, infine, difendersi dalle visioni accattivanti  di persuasori più o meno occulti. 

Nella Pacem in Terrris questo invito é costante e nel praticarlo  si raccomanda, non a caso, di non alzare barriere, basta la luce della ragione e una disposizione onesta e non confondendo mai - avverte il Papa - l'errore con l'errante, anche quando  si tratta di errore o di conoscenza inadeguata della verità in campo morale religioso. L'errante é sempre anzitutto un essere umano e conserva, in ogni caso, la sua dignità di persona; e va sempre considerato e trattato come ci conviene a tanta dignità. Inoltre in ogni essere umano non si spegne mai l'esigenza, congenita alla sua natura, di spezzare gli schermi dell'errore per aprirsi alla conoscenza della verità.    

testo integrale tratto da "La Repubblica - Palermo" - 25 marzo 2003