FONTE: ORE UNDICI

Ciò che rende feconda la PASSIONE di Cristo

Mostrò la verità del suo vangelo amando 'sino alla fine'

di Carlo Molari

Nei primi giorni di marzo si è parlato diffusamente della Passione di Cristo in seguito alla prima proiezione pubblica del film The Passion di Mel Gibson negli Stati Uniti. Certamente se ne parlerà ancora quando il giorno 9 aprile prossimo, venerdì santo, sarà proiettato anche nelle sale italiane. Non sono in grado di dare valutazioni critiche del film, che, d'altra parte non conosco, ma vorrei mettere in luce alcuni presupposti, apparsi tra le righe dei vari commenti, che falsano il significato della passione di Cristo e quindi travisano l'interpretazione teologica della Croce. Non so se questi presupposti siano rilevabili anche nel film, ma certamente lo sono in alcune delle riflessioni provocate dalla sua apparizione.
Qualche tempo prima, ma indipendentemente dal film di Gibson, un articolo di Pietro Citati, pubblicato con grande rilievo nel quotidiano La Repubblica: ("Crocifissione. Le parole di Gesù che muore e il silenzio misterioso del Padre" 29 gennaio 2004 pp. 44-45), esplicita con molta chiarezza gli ambigui presupposti teologici di cui parlavo. Vi sono riprese infatti alcune convinzioni diffuse che possono favorire una interpretazione falsata della passione di Cristo.
Riferendosi, ad esempio alla preghiera nel Getsemani Citati scrive: "in quel momento, mentre si muove tra i vecchi ulivi o tocca il suolo col volto, Gesù conosce fino all'ultima goccia, il compito che Dio (anzi il Padre) gli ha imposto e che egli stesso si è imposto, sopportando l'incarnazione. Non ignora nemmeno un'ombra del suo futuro. Sa che fra poco, proprio lì a Gerusalemme, egli sarà condannato dai sacerdoti e dagli scribi del suo popolo; e che gli indifferenti soldati romani lo derideranno, gli sputeranno, lo flagelleranno, lo crocifiggeranno" (p. 44, c 1). In questo periodo sono espresse due convinzioni, ancora molto diffuse e derivate da alcuni modelli teologici in vigore da secoli. La prima è l'opinione che Gesù godesse della visione beatifica fin dall'inizio della sua vita e che possedesse una particolare scienza infusa, in virtù delle quali Egli avrebbe conosciuto da sempre il suo destino di sofferenza. La seconda è l'idea che la morte di Gesù fosse necessaria alla salvezza dell'uomo perché decisa da Dio, come riparazione, espiazione o soddisfazione (secondo i diversi modelli teologici) del peccato umano.

La morte di Gesù non è una recita teatrale
Ora un tale modo di immaginare l'esperienza di Gesù non ha reale fondamento e contraddice alcuni dati fondamentali della fede. Sappiamo che Gesù "cresceva in sapienza età e grazia" (Lc 2,53), che cambiava progetti, che pregava lungamente e spesso per capire la volontà del Padre e per decidere con fedeltà della sua vita. Se il progetto di Dio avesse realmente previsto come necessaria la morte in croce, e se Gesù ne avesse avuto perfetta conoscenza, tutta la sua esistenza si sarebbe snodata come in una scena teatrale, in cui l'attore si cala così intensamente nella parte da farla apparire autentica. L'avventura di Gesù avrebbe perso quella caratteristica di libertà, di casualità e di incertezza, che invece appare dai Vangeli. Sul Calvario non è stato recitato un copione già scritto e imparato a memoria, ma si è perpetrato un crimine nefasto, contrario al volere di Dio e opposto al suo piano di salvezza.
Certamente Gesù si rese conto ben presto delle trame di morte intessute contro di lui dai capi del popolo, dagli anziani di Gerusalemme e dai Sommi sacerdoti. Egli conosceva i sospetti dei Romani e i loro modi brutali di stroncare ogni movimento contrario. Gesù rifletté a lungo per decidere sulle scelte da compiere, quando si rese conto degli ostacoli sorti sul suo cammino. Furono, in particolare le meditazioni sui Carmi del Servo, contenuti nel libro del Profeta Isaia (Is. 42-53), a orientare la sua decisione. Anche le domande poste ai discepoli, dopo una sosta di preghiera solitaria (Lc 9,18), riguardo alle attese della gente nei suoi confronti ("cosa dice la gente che io sia?"), come pure l'esperienza di preghiera sul Tabor (Lc 9,28) con i tre discepoli a Lui più vicini, devono essere lette in questo contesto di riflessione per decidere secondo la volontà del Padre. Diverse vie si presentavano davanti a Lui, ma dopo preghiere e riflessioni prolungate, Egli scelse di continuare l'annuncio del regno e di portare anzi la sfida della sua proposta fin nel cuore del giudaismo, a Gerusalemme pur nella previsione di una morte violenta.
I diversi annunci della morte riportati nel Vangelo (Mc. 8, 31 s.; 9, 30; 10, 32-34) riflettono la certa convinzione che egli aveva maturato in proposito. Questo non significa che Gesù fosse convinto della necessità assoluta della sua morte. In quanto ingiusta, conseguenza di un rifiuto della Parola di Dio, frutto di odio ed espressione di violenza, essa era contraria al volere di Dio, e Gesù ne era consapevole. Ma, in ogni caso, sapeva che affrontandola con amore proporzionato alla forza distruttrice che conteneva, Egli avrebbe mostrato la verità del Vangelo annunciato perché Dio avrebbe certamente operato sino alla fine e rivelata in Lui la volontà di iniziare la nuova tappa dell'alleanza.
La necessità di continuare il cammino anche di fronte al rischio della morte era quindi di carattere storico e teologico: storico perché dipendeva dal rifiuto che i capi del popolo opponevano alla sua proposta di conversione, teologico perché nasceva dalla fede che Dio avrebbe condotto a compimento il progetto dell'Alleanza nuova. Che Gerusalemme non riconoscesse i profeti e li uccidesse, non corrispondeva alla volontà di Dio, ma era un dato di fatto costante nella storia. Gesù dovette riconoscere che la legge si sarebbe attuata anche nei suoi confronti. Nello stesso tempo le resistenze dei discepoli a sintonizzarsi con le scelte che Egli faceva, confermavano le difficoltà di tutto il popolo. Il rimprovero esplicito che Pietro rivolse a Gesù (Mc 8,32) per le sue previsioni, giudicate pessimiste dall'apostolo, indica senza ombra di dubbio, quale distanza ancora esistesse in quel tempo, tra gli apostoli e il loro Maestro.

I riferimenti biblici delle scelte di Gesù
D'altra parte i numerosi riferimenti al servo di Dio e al Figlio dell'uomo "venuto non per essere servito, ma per servire e dare la vita in riscatto di molti" (Mc 10,45), indica chiaramente che Gesù coglieva nelle pagine del libro di Isaia relative al Servo i criteri per decidere la proprie fedeltà al Regno. Quelle pagine, tuttavia, di per sé, non riguardavano il Messia né annunciavano la sua morte. Parlavano della fedeltà di un servo che si mette disposizione di Dio per rivelare le esigenze della sua giustizia e ne subisce le conseguenze. Gesù rese profetiche quelle pagine seguendo fedelmente le leggi salvifiche ivi descritte, ne mostrò la verità vivendole nella sua carne.
Anche la riflessione compiuta sul Tabor con il richiamo alla Legge e ai profeti (Mosè ed Elia) suggerisce che questo confronto con le Scritture era prassi abituale di Gesù nel dialogo con i discepoli. Nel racconto dei due discepoli di Emmaus il riferimento alle Scritture sarà poi indicato in modo esplicito: "cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui" (Lc 24, 27). Questo richiamo divenne poi abituale anche ai discepoli. Filippo catechizzò il funzionario della regina d'Etiopia Candace, proprio riflettendo sul capitolo 53 del profeta Isaia, che egli stava leggendo: "partendo da questo passo della Scrittura gli annunziò la buona novella di Gesù" (At. 8,35). La tradizione perciò raccolse presto il nesso tra la l'avventura di Gesù e le Scritture, se già Paolo riporta una formula di fede, germe delle future professioni: "Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture" (1 Cor 15, 3s).
Gesù aveva iniziato la sua attività pubblica con la convinzione che l'invito al rinnovamento e alla conversione proposto al suo popolo avrebbe aperto nuove strade di benessere all'umanità intera. Nel Battesimo ricevuto da Giovanni e nella preghiera lungamente protratta nel deserto Gesù aveva analizzato la situazione e compiuto la sua scelta. In Luca Gesù la espone con lucidità quando, all'inizio della sua vita pubblica nella sinagoga di Nazaret, aveva letto nel libro del Profeta Isaia: "lo Spirito del Signore è sopra di me, mi ha unto con l'unzione per proclamare un anno di grazia del Signore", e aveva dichiarato: "oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete ascoltata con i vostri orecchi" (Lc. 4, 18.21). Egli si avviò per lo svolgimento della sua missione, fiducioso che le sue parole e la sua dedizione avrebbero potuto muovere i cuori della maggioranza del popolo in modo da segnare l'avvio di una nuova tappa della storia salvifica. Purtroppo non fu così.
Ora, al termine del suo cammino, doveva riconoscere che il rifiuto pervicace e violento costituiva una sconfitta delle sue attese. Egli continuava a fidarsi del Padre, ma non sapeva come la sua azione sarebbe fiorita nella trama perversa del rifiuto e nel turbine di una ingiusta estrema violenza. Egli era convinto però che suo compito era rivelare l'amore di Dio e annunciare il Vangelo del Regno, vivendolo nella sua carne.
Attribuire a Gesù la conoscenza previa di un destino di morte impostogli da Dio rende impossibile penetrare la sua spiritualità e capire il cammino di libertà compiuto in quelle difficili circostanze. Egli, a conoscenza della suscettibilità dei Romani verso ogni movimento religioso che annunciasse il Regno di Dio, avvertita l'ostilità dei sommi sacerdoti e vista l'interpretazione faziosa che scribi e farisei davano delle sue scelte, si rese conto che l'unica possibilità rimastagli era mostrare la verità del suo Vangelo amando "sino alla fine" (Gv 13,1).
Egli sapeva che la sofferenza, quando consente la dilatazione dell'amore, partecipa della sua forza redentrice. Gesù l'aveva intuito e predicato più volte, ma non aveva immaginato di verificare la verità di questa legge della salvezza umana in situazioni così violente e ingiuste, fissate dalla durezza di cuore degli uomini e non dalla volontà divina. Egli d'altra parte aveva già sperimentato quale forza positiva scaturiva dalla sua persona e quale contagio potesse diffondere il suo amore. In piena libertà, perciò, Gesù deciso di restare fedele all'intuizione degli inizi, intensificò la sua preghiera e continuò il cammino. Egli era convinto che tale scelta corrispondeva alla volontà di Dio e che la nuova Alleanza, secondo modi che solo Dio conosceva, sarebbe stata stabilita per sempre.
Sulla croce però, per un momento, tutto sembrò svanire. Il grido del salmo 22 che i due primi evangelisti riferiscono: "Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato" (Mc 15, 34; Mt 27,46) tradiva un reale sconcerto di fronte all'inefficacia del suo amore. Ma anche quell'ultima preghiera fu espressione, eccelsa, della sua fede in Dio. Fu proprio quell'atto finale di fiducia a consentire il dono dello Spirito, quell'esplosione della forza creatrice, che fiorì in lui come vita nuova nella risurrezione e che, attraverso i suoi discepoli, dilagò nel mondo.

dal sito www.oreundici.org