IRAQ

La pace passa per l'Onu

di Mikhail Gorbaciov

La situazione in Iraq sta diventando sempre più complicata e, per molti aspetti, sempre più inquietante. Non a caso il rappresentante speciale dell'Onu Lakhdar Brahimi, dopo aver visitato questo Paese, ha parlato di un reale rischio di guerra civile. Questo avvertimento suona anche come un'accusa contro coloro che, contrariamente alla volontà della comunità mondiale e nonostante la possibilità di altre soluzioni di carattere politico, ha lanciato un'operazione militare contro l'Iraq.
Da queste colonne scrissi che anche se la vittoria militare era garantita dall'enorme disparità delle forze, le sue conseguenze sarebbero state pesanti anche per coloro che avevano attaccato, non solo per gli aggrediti e per tutta la comunità internazionale. E' esattamente ciò che sta accadendo. L'occupazione costa agli Usa quasi 4 miliardi di dollari al mese. Letteralmente ogni giorno in Iraq muoiono militari americani e civili. L'amministrazione statunitense paga anche un prezzo politico per il suo errore, il suo sostegno interno si è visibilmente ridotto.

Sprofondato nel caos e nella destabilizzazione, dilaniato da conflitti, privo ormai di meccanismi interni di sicurezza, l'Iraq è diventato un'incubatrice di terrorismo che come un magnete attira estremisti di tutte le razze che coordinano la propria attività. Sono sempre più evidenti i segni della disintegrazione della società irachena, che si sta spaccando lungo linee di divisione etniche e religiose. Lo sfaldamento dello Stato in tre parti, curda, sunnita e sciita, non sembra più un'ipotesi impossibile. Anzi, negli stessi Usa qualcuno giunge a presentare come «desiderabile» questa prospettiva.
In Iraq e nei Paesi vicini questa soluzione - che comporterebbe inevitabilmente pulizie etniche e spargimento di sangue - è stata respinta senza esitazioni. Ma resta evidente che la conservazione dell'integrità dell'Iraq, per non parlare della sua trasformazione in un Paese che prospera rientrando nella corrente di sviluppo dell'intera umanità, è un compito difficilissimo. Ed è ancora più evidente che le autorità d'occupazione americane non sono all'altezza di questo compito.

Prima e dopo l'invasione americana ho ripetuto che gli Usa saranno costretti - più prima che dopo - a rientrare in un contesto Onu, e che non si potrà uscire dalla situazione senza ricorrere ai meccanismi internazionali. Qualcuno aveva ironizzato su questo mio pronostico. Ed ecco che gli Usa si sono rivolti al segretario generale dell'Onu chiedendogli di diventare una sorta di arbitro delle diverse soluzioni del passaggio del potere agli iracheni. Si è scoperto che il piano americano della convocazione dell'Assemblea nazionale, eletta attraverso un incomprensibile meccanismo di «assemblee di rappresentanti» regionali, è inaccettabile per la maggioranza degli iracheni, in particolare per gli autorevoli leader della comunità sciita. Che chiedono di indire entro la data fissata dagli americani del 30 giugno elezioni generali. Qualunque possa essere il motivo «organizzativo» che le autorità d'occupazione oppongono a questa richiesta, in sostanza non si può obiettare nulla e il rappresentante del presidente americano in Iraq Paul Bremer ha già dichiarato di essere pronto ad esaminare sostanziali modifiche al piano degli Usa. Ecco perché si è reso necessario l'aiuto dell'Onu.

Eppure resta difficile sbarazzarsi dall'impressione che l'obiettivo dell'amministrazione americana non sia quello di aprire la strada ai processi democratici, ma di stabilizzare bene o male la situazione fino alle elezioni presidenziali negli Usa, per poi instaurare in Iraq un regime accettabile per Washington, raggiungendo anche obiettivi nemmeno più tenuti segreti, come la collocazione in Iraq di truppe e basi americane.

Ma questi obiettivi sanno di puro egoismo. La grande politica diventa subordinata agli interessi statunitensi nella loro interpretazione più miope. Questo progetto è destinato al fallimento, esattamente come il piano di quelli che speravano in una «vittoria lampo» non solo militare, ma anche politica.

Dove cercare la via d'uscita? Sembra che nei colloqui con il rappresentante dell'Onu i leader sciiti avessero fatto capire di poter accettare un rinvio alle elezioni generali a una data successiva al 30 giugno - ma sempre entro la fine dell'anno - solo a condizione che siano le Nazioni Unite a prendere di fatto il controllo sulla transizione. Ritengo che la soluzione vada cercata proprio in questa direzione. Vorrei anche ritornare a una proposta che avevo già fatto: coinvolgere maggiormente il potenziale politico e pacificatore dei vicini dell'Iraq, della Lega araba. Il passaggio del potere agli iracheni deve essere un autentico processo di ripristino della sovranità, il cui risultato deve essere accettabile prima di tutto non per gli architetti dell'invasione, ma per il popolo iracheno, per i Paesi della regione e per tutta la comunità internazionale.

E un'altra proposta. Poco prima della guerra il Consiglio di Sicurezza dell'Onu aveva svolto una serie di sedute aperte in cui rappresentanti di decine di Paesi avevano esposto le loro posizioni. Penso che oggi una tale «sessione speciale» del Consiglio di Sicurezza sia ancora più attuale che allora. I membri della comunità delle nazioni devono esprimersi sulle lezioni da trarre dall'accaduto, sulle correzioni da apportare ai meccanismi di cui disponiamo, per escludere in futuro operazioni militari preventive e utilizzare invece con la massima efficacia la diplomazia preventiva. In questo contesto l'amministrazione americana avrebbe la possibilità di fare, stavolta, un discorso costruttivo.

testo integrale tratto da  "La Stampa" - 19 febbraio 2004

 

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