In Africa 15 guerre

Distanti come tempeste su Marte

 

di Romanello Cantini

Dopo la doppia catastrofe delle due guerre mondiali nel secolo scorso, relativamente poche sono state le guerre vere e proprie fra Stati. Conflitti come quelli fra India e Pakistan, fra Grecia e Turchia, fra Israele e gli Stati arabi: parentesi pericolose ma brevi, rintuzzate alla svelta e alla meno peggio dalla tutela delle superpotenze. Innumerevoli sono state invece negli ultimi decenni le guerre che si sono consumate all'interno degli Stati. Attualmente si contano una ventina di questi conflitti più o meno latenti o rabbiosi, soprattutto in Africa.
A differenza di quel che avviene per la paventata, e speriamo ancora scongiurabile guerra all'Iraq, l'attenzione che i media e l'opinione pubblica internazionale concedono a tali conflitti è minima, e non solo perché appaiono lontani come le tempeste di sabbia su Marte. Già sapere che esistono, anche ad onta dello scandalo della loro durata, dipende da qualche sforacchiamento colto a volo in qualch e programma televisivo. Capire, diventa impresa quasi impossibile. Sembrano mancare gli slanci umanitari diffusi, le passioni politiche e civili o la paura del coinvolgimento in attacchi terroristici che inducono a promuovere manifestazioni o marce per la pace. Per i più, quei drammi che si consumano lontano dal Nord del mondo sono incendi nella prateria per i quali sembra che non si possa fare altro che aspettare che si spengano da soli.
Eppure queste guerre hanno fatto decine di milioni di morti che da soli dovrebbero bastare a produrre qualche empatia. Solo in Africa ci sono oggi 16 milioni di rifugiati contro i 2 milioni di trent'anni fa. Le statistiche dell'Onu ci dicono che gli affamati superano la metà della popolazione nei Paesi (Somalia, Burundi, Repubblica del Congo, Eritrea, Mozambico, Angola) dove la guerra ha infierito fino a ieri o ancora infierisce.
Questo tipo di conflitto è per sua natura ancora più affamatore delle guerre classiche. A differenza delle guerriglie legate all'epoca della guerra fredda che puntavano all'indottrinamento ideologico, la guerriglia «post-moderna» cerca di convincere con la paura eliminando o cacciando i diversi, saccheggiando, seminando mine, privando dei rifornimenti, distruggendo raccolti e mezzi di comunicazione.
In queste situazioni incancrenite dove la diplomazia è morta, non resta altra risorsa che un intervento dell'Onu con proprie forze di pace. Ma per un dispiegamento di forze di questo genere oggi non esistono né la volontà politica, né i mezzi finanziari, né le consegne adeguate. Non si tratta solo di spruzzare qua e là su un continente martoriato qualche centinaio di osservatori impotenti e spesso ciechi, ma di impegnare un personale capace anche di spendere se stesso qualora si tratti di impedire almeno le peggiori infamie.
In ogni caso, in questi conflitti senza fine, pacificare e ricostruire sono le facce della stessa medaglia. Per disarmare veramente è necessario offrire subito alternative al mestiere della guerra, ricostruendo infrastrutture e un minimo di economia funzionante e ridando speranze per una vita migliore. In questa prospettiva non si può fare a meno dell'aiuto internazionale e dell'opera sul posto di quelle organizzazioni non governative che spesso sono le uniche testimoni di questi lunghi drammi silenziosi e che talvolta sono anche capaci di sviluppare - oltre che la collaborazione con la popolazione locale - quella «diplomazia dal basso» che è uno degli strumenti della indispensabile riconciliazione.

testo integrale tratto da "Avvenire" - 19 febbraio 2003