Se
questo è l'imperatore
di GIULIETTO CHIESA
«Era in grado di
fare le armi. Era pericoloso, e io non sono proprio uno che lo lascia al
potere, o che ha fiducia in un pazzo». George Warbusto ha sciorinato
davanti al mondo la sua drammatica visione del diritto internazionale,
che, mutatis mutandis, l'oppone all'altezza del ministro italiano
della giustizia. La lettura dell'intervista, effettuata sulle pagine del Herald
Tribune è però molto più divertente di quella - ben educata e con
le virgole a posto - data da alcuni giornali italiani. A un certo punto
l'intervistatore, Tim Russert, richiede, molto rispettosamente, se ritenga
che la guerra sia stata una scelta o una necessità. La prontezza di
riflessi dell'imperatore appare eccezionale. «Penso che sia una domanda
interessante. Non potrebbe elaborare un pochino meglio?», ci deve pensare
sopra. Poi, forse - non è sicuro - si accorge che qualcosa deve pur dire,
e continua da solo: «Una guerra per necessità. L'Iraq era un posto
pericoloso».
Basta questo piccolo florilegio per farci capire in che mani siamo. Costui
ha mandato un esercito a conquistare un paese sulla base di una fila di
menzogne che farebbero arrossire i soliti ignoti. E adesso ci comunica che
Saddam Hussein era in grado di fare le armi. Quanti sono, in giro per il
mondo, a cominciare da lui stesso, quelli che sanno fare le armi e le
usano a sproposito? Che facciamo? Li facciamo fuori tutti?
Ma ormai la logica, perfino la sintassi, sono oltre l'orizzonte dei
dirigenti del pianeta. Che ne è di Osama Bin Laden?, chiede malizioso
l'intervistatore. E George prontissimo: «Non so se è vivo o morto, ma lo
prenderemo». E come mai la commissione d'inchiesta deve finire i suoi
lavori l'anno prossimo, a elezioni avvenute? «Deve esserci il tempo a
sufficienza per fare un ritratto ampio... che servirà ai prossimi
presidenti».
Un vero spettacolo di varietà, come l'intervallo del Super Bowl,
dove Janet Jackson ha fatto come Cicciolina e si è tirata giù, per caso,
il reggiseno, per la gioia (o il raccapriccio) di un centinaia di milioni
di spettatori americani, più altri cento milioni di stranieri che si
interessano di football americano.
In fondo ha ragione quel fior fiore di reazionario intelligente che si
chiama Thomas Friedman che ieri sul New York Times ha avuto un
attimo di sconforto e di vergogna: «Noi, che siamo così ricchi e così
forti e così nel giusto», ci vediamo consegnare dalla Casa bianca un
messaggio che è «moralmente e strategicamente da bancarotta», e che
suona più o meno così: Tutti voi continuate a occuparvi dei vostri
affari, fate shopping, cercate la felicità, guardatevi le tette di Janet
nell'intervallo del Super Boal, compratevi il fuoristrada di
Shwarzenhegger. «Nessun sacrificio vi è richiesto, nessuna attacco da
pagare per questa cuccagna infinita. Neppure il bisogno di ridurre il
consumo di benzina, anche se ciò consentirebbe di tagliare i
finanziamenti alle forze di intolleranza islamica che ammazzano i nostri
soldati».
L'imperatore, a domanda, risponde: «Credo che in Iraq noi siamo i
benvenuti». In un paese normale, uno che ha 115mila uomini sul terreno, e
che deve registrare mediamente uno o due morti al giorno, sarebbe stato
sommerso di invettive o di lazzi, o di entrambi. Ma un paese normale (una
democrazia normale) non affiderebbe a uno così le sorti del proprio
destino e di quello dei 115mila uomini.
Lui, l'imperatore, sa perfettamente che quello non è già più un paese
normale. E' per questo motivo che, sorridendo con sincero entusiasmo, ha
detto :«Io non perderò». Nonostante i sondaggi lo diano in basso, e
l'economia vada maluccio. Guardando quelle immagini mi sono ricordato la
descrizione della famiglia Bush al completo, la sera della vittoria (si fa
per dire) del 2000 fatta da Michael Moore. Bush stava perdendo, ma tutti
sorridevano compiaciuti, come gatti che sapevano, loro soltanto, dove
stava il topo che avrebbero mangiato di lì a poco.
testo
integrale tratto da "Il Manifesto" - 10 febbraio 2004