IDEE
alfabeto delle relazioni/ 38 «Prendo spunto
da un romanzo che la critica italiana ha dimenticato: l’autore è
Carmelo Samonà»
Il
fratello matto
Lo
scrittore racconta la vicenda di due fratelli, di cui uno malato di mente:
quello sano condivide la sua vita giorno per giorno: «Non ho altra
scelta... che sedermi accanto a lui»
di
Vittorino Andreoli
Carmelo Samonà nasce a Palermo nel 1926,
ha insegnato letteratura spagnola a Roma, ed è noto per i suoi studi sul
teatro barocco e sulla letteratura del Seicento spagnolo. Ma il motivo del
nostro interesse per lui, in questa occasione, è il suo romanzo
"Fratelli", pubblicato nel 1978 (Einaudi, Torino), all'età di
cinquantadue anni. Non scrive nient'altro di importante in letteratura, e
muore il 17 marzo 1990.
Ho richiamato queste essenziali note su Samonà, prevedendo che molti non
avranno mai sentito il suo nome, eppure non lo si può tralasciare quando
si affronta un tema come quello dei fratelli. E non tanto per il titolo
del suo romanzo, ma per la storia che propone, relativa al rapporto tra un
fratello sano e uno malato, anzi malato di mente.
E' una storia di grande attualità. Oggi i malati di mente vivono nelle
case, non più in luoghi speciali, come lo erano i manicomi. Anche in
questo caso si ventila un ricovero che però non viene mai eseguito, e il
romanzo si svolge in casa, in attesa di questo tipo di sbocco. L'atmosfera
richiama molte famiglie e forse molti fratelli che aspettano chissà quale
soluzione, che però non arriva mai, e così il matto rimane in casa.
In questa storia la famiglia è però costituita solo da lui - il malato -
e dal fratello sano, e si tratta di un esempio di legame positivo tra
fratelli: il sano dedica la propria vita a chi è malato. Ebbene, dopo
esserci occupati di casi in cui dominava l'odio e la vendetta, ecco
finalmente una boccata di ossigeno necessaria.
Notiamo, ancora una volta, che la cronaca e anche i romanzi sono più
attenti ai conflitti e alla violenza piuttosto che ai comportamenti dediti
al bene, a situazioni in cui uno si vota, magari silenziosamente, alla
cura dell'altro. Ci sono tanti esempi silenziosi, che non fanno cronaca
appunto, ma che rappresentano una ricchezza per l'umanità, perché in
grado di superare quell'aspetto di atrocità che tante storie di famiglia
richiamano con molta enfasi. Un motivo in più ci v iene dalla
"Giornata mondiale del malato di mente", celebrata proprio
domenica 10 ottobre, e che dovrebbe essere dedicata anche alle famiglie
degli stessi malati, e quindi, ritornando al romanzo di Samonà, pure ai
fratelli.
La natura della malattia nella sua forma morbosa viene lasciata
intenzionalmente nel vago. Avverte l'autore: «Non le darò un nome. La
malattia rappresenta nel suo peregrinare l'incognita permanente, una
specie di oggetto invisibile prima ancora che una forza ostile». E' quel
senso indistinto d'altra parte, e sconosciuto, a venire sempre percepito -
al di là delle definizioni nosografiche - da chi vive con il malato di
mente.
Che è comunque un malato grave, non solo perché il fratello non lo
lascia, non può lasciarlo mai solo, finendo così per legare la propria
vita di sano a quella del fratello malato, ma anche perché dalle
caratteristiche che vengono descritte si tratta di una schizofrenia
ebefrenica, quindi di una forma di dissociazione che fa percepire la realtà,
il mondo, secondo sensi diversi da quelli che si percepiscono nella
normalità. «Lo seguo da vicino come se avesse una forma, lo spio, ne
annoto con cura i sintomi e li metto in relazione fra loro…Ma non siamo
mai certi di poter dire: questa cosa deriva dalla malattia, quest'altra
invece ne è immune; giacché la malattia impalpabile e lenta, percorre di
soppiatto ogni luogo».
Qui si capisce come il fratello malato finisca per entrare in lui, sano, e
mettere in crisi ogni criterio su cui si fonda l'individualità: «Così,
ho imparato che bisogna fingere di accettare la malattia come qualcosa che
ci integra e ci appartiene». E qui il plurale, quel «ci appartiene»,
viene espresso in maniera esemplare, come dire: "sono parte di lui, e
per capire la sua malattia sono anch'io malato". «Io posso, se lo
desidero, imitare la malattia; lui è costretto a viverla…potrei se mi
stancassi…lasciare mio fratello al suo destino e fuggire. Se non faccio
nulla di simile è perché ho scelto liberamente di vivere qui».
Io credo, invece, che lui sia stato potentemente condizionato dal legame
parentale che lo vincola come fratello, e dunque senta il bisogno di
assisterlo. C'è infatti un legame forte che si acuisce tra i fratelli,
proprio quando c'è bisogno, quando c'è una malattia, e questo
neutralizza ogni altro possibile disguido o conflitto.
Un aspetto straordinario di questa storia tra due fratelli è che la
follia viene descritta nei particolari, nei vissuti concreti, con
circostanze reali, senza nulla concedere alla teoria e alla retorica.
Esattamente come accade per ogni familiare, che mostra sempre la follia
nelle sue espressioni piccole e quotidiane, che però generano angoscia.
«Da anni mio fratello intrattiene con i propri indumenti rapporti
complessi…Quando li ha su di sé si comporta come non ne avvertisse
affatto il peso, la consistenza; li osserva, invece, con cura meticolosa e
ne appare sgomento, quando si tratta di indossarli e di toglierli. I
movimenti che compie…vengono provocati, riscoperti, esposti a leggere
varianti…come se lo scopo fosse arricchire all'infinito una casistica
esecutiva…La stessa cosa avviene durante i pasti…comincia a mettere da
parte un boccone, un frammento, che infila in una tasca o colloca in un
punto del tavolo…Lunghi intervalli tra i bocconi si alternano a momenti
di ingordigia e alle tante masticazioni».
Ci sono poi delle liturgie che accompagnano le funzioni evacuative: «armeggia
sulle asole e sulla cintura dei pantaloni senza decidersi a sbottonarli,
ruota e volteggia a ritmo di danza intorno alla tazza…Per sette volte ne
distoglie lo sguardo e fa per allontanarsi; per sette volte torna a
guardarla fra nuovi cenni di danza, borbotti e misteriosi sorrisi». E qui
il termine "misterioso" è quanto mai appropriato, come se il
comportamento seguisse dei non sensi, che però hanno un senso e certo lo
hanno per il folle.
Ecco il matto: questi suoi comportamenti si susseguono lungo tutto il
giorno, portando a vivere la stes sa liturgia anche il fratello, che prima
l'osserva, poi la prevede, e dopo è in grado di imitarla. In proposito
torna alla mente tutta la letteratura relativa al matto e al matto
inventato, dall'"Enrico IV" di Pirandello fino
all'"Amleto" di Shakespeare, ma anche la letteratura che parte
dal "Malato immaginario" di Molière e che si ripete fino ad
oggi in continue variazioni.
E' sorprendente come un matto in casa sia, in fondo, differente da quello
di una corsia ospedaliera, non solo per l'organizzazione di un ospedale,
che finisce per guidare anche i sintomi del folle, ma soprattutto per il
tipo di percezione clinica, che tende a formulare una diagnosi e non a
capire il malato nell'ordinario, come passa - e per sempre - tutta la sua
giornata. Cambia la percezione e il matto diventa altro.
I due fratelli vivono nella vecchia casa di famiglia, i loro genitori sono
morti, ed è come se tutto fosse morto. Sono gli «ultimi di una famiglia
che fu numerosa». Una casa con oggetti «residui di un'intimità
familiare». Rimane solo un uomo, adulto, matto, e il suo fratello sano
che vive la follia per aiutarlo, per non abbandonarlo. Si tratta di «un
vecchio appartamento nel cuore della città». Vi regna una «complicata
gerarchia di silenzi…L'interno…è di un'ampiezza afona, assorta,
nobilmente inadeguata ai suoi scopi…un volteggiare di echi, di tramestii».
La vita per la maggior parte del tempo si svolge dentro casa, ma anche
fuori: uno degli appuntamenti quotidiani è la passeggiata ai giardini.
Uno scenario nuovo, poiché è pubblico, e il matto è esposto alla gente,
mentre il fratello vorrebbe nasconderlo. Qui la descrizione è
straordinaria in quanto mette in luce l'amore tra i due fratelli, che
scoppia quando il matto scappa, e avviene frequentemente. Lui non sa dove
sia andato e teme, poiché la follia toglie la capacità di vivere nel
mondo, quindi il mondo la può sopraffare, ed è chiaro che si percepisce
l'ombra della morte.
Il sottrarsi del fratello matto dal controllo prom uove ricerche
spasmodiche: «spiando dentro i portoni, sussurrando a mezza bocca il suo
nome, fermandomi per aguzzare lo sguardo in profondità…Se fosse un
bambino sarebbe facile, per me, chiedere aiuto ai passanti; ma giacché si
tratta di lui, ho pudore di farlo». Ma perdendo il fratello matto, anche
lui si sente perduto. Un sentimento bellissimo, questo, e
straordinariamente descritto: «non sapevo più da che parte andare,
sentivo salirmi agli occhi le lacrime di paura e di rabbia, fantasticavo
di vendicarmi di lui appena l'avessi rivisto…Immaginavo di essere io
alle dipendenze di mio fratello e di aver smarrito il contatto protettivo
della sua mano». La voglia di pensare al fratello che si era perduto lo
porta a immaginare che a essersi perso invece è lui.
Per completare la scenografia della vita dei due fratelli manca ancora un
elemento importante: i vicini. In tutto il romanzo c'è una sola frase che
ne indica la presenza: «cerco a chiudere la finestra perché i vicini non
sentano le grida acute e gioiose che manda». I vicini di casa sono
un'entità che non si deve disturbare, per la quale quel fratello malato
non deve esistere. E in questa frase c'è la percezione di molte famiglie
con il matto in casa, le quali, oltre ad una gestione difficile, devono
anche non esistere o vivere come se lui non ci fosse, non ci fosse per i
vicini.
Certo una vita non facile. «Qualche volta, stanco e sfiduciato, corro
nella mia stanza e mi chiudo dentro…lasciandolo per un po' al suo
destino…mi stendo sul letto e cerco di rilassarmi…ma con l'orecchio
appoggiato a un punto della parete cerco di prevedere quanto occorrerà a
mio fratello». E' stupendo: emerge il sentimento di appartenenza, il
legame, e allora non è mai possibile rilassarsi, mai lasciare al suo
destino un fratello malato, questi ha il destino identico a quello del
sano che lo condivide.
Non c'è speranza di guarigione, né di una liberazione. C'è uno stesso
destino appunto, come se la sua pazzia fosse la tua, poiché tu che sei
sano devi vivere come lui, come se anche tu fossi malato. «Non ho altra
scelta…che sedermi accanto a lui e accettarne il comportamento senza
capirlo».
Bellissimo, questo è l'amore, questa è la pietas, questa è la
grandezza della miseria, la meraviglia di un legame. La pazzia permette di
analizzare in profondità il rapporto d'amore tra fratelli, poiché si
fonda proprio su ciò che non si capisce. E il legame d'amore è fondato
prevalentemente su quel non capire, si direbbe, parafrasando Tertulliano: quia
absurdum. «Si direbbe che il nostro esserci consista, più che nella
presenza dei nostri corpi, in un allentarsi e ricongiungersi, continuo, di
lontananze e di vuoti».
Ho trovato in questo romanzo una straordinaria e profonda descrizione
della schizofrenia, di questa forma di follia che si caratterizza per la
dissociazione, per la frammentazione dell'Io. Si perde l'unità, per
questo chi ne soffre non riesce a percepirsi in maniera unitaria, e quindi
a porsi nella realtà in un confronto comprensibile e adeguato.
Riferendosi al modo di parlare, il fratello dice: «Si direbbero lucidi
frammenti di un discorso che ha perduto la sua compattezza in seguito a
una lontana, terrificante esplosione; nel moto centrifugo i nessi si sono
spezzati, i sensi rovesciati e stravolti ma schegge luminose di quell'antico
tesoro linguistico emergono ancora dalle labbra …Non ho mai conosciuto
linguaggio in cui abbiano tanta parte i silenzi…Comincia allora fra noi
un dialogo senza parole: sguardi obliqui e affilati, piccoli approcci
delle mani a tentare di toccarsi, di stringersi».
Sembra di vederli, e la scena commuove, sapendo di grande umanità. «Allacciare
fra noi una piccola rete di spezzoni di frasi…pare che conti meno del
lungo corteo di carezze, strattoni, manate sulle spalle e occhiate furtive
che accompagnano le parole».
E' una disdetta che, tra tanta letteratura vuota ma in classifica, questo
stupendo romanzo sia stato dimenticato, anzi non sia mai nato per la
pochezza della critica letteraria italiana.
Il romanzo finisce con la celebrazione di un rito, in un'atmosfera arcana.
«Una mimica misteriosa va sempre più rimpiazzando le già sparute frasi
di un tempo: sono cresciuti enormemente gli spazi riservati agli
intervalli tra un suono e l'altro…le distinzioni di senso riguardano i
movimenti delle mani, del viso, i toni e i timbri delle varie sonorità».
La parola ha quindi lasciato il posto al suono come puro dato fisico, ed
«è un viaggio verso il mutismo». Un rito non è mai verboso, ha segni
misteriosi e semmai suoni arcani. Si avverte «il dominio imperscrutabile
del silenzio», «il silenzio velato dello sguardo», l'impressione che «il
filo che ci lega, il tratto d'aria che separa le nostre labbra si riempia
di strani inviti, ammicchi, seduzioni ed avvertimenti. E mi pare che in
mezzo a questo si agiti, nel fondo una verità che stenta a venir fuori
per impotenza mia a individuarla ed estrarla».
La verità della follia sfugge, ma certo non il suo mistero e la sua
sacralità. E mi dichiaro felice di trovare questa dimensione nella vita
di un uomo, e di un uomo folle, poiché la scienza che io amo aiuta a
chiarire la follia, ma mai riuscirà a coglierne il segreto pure umano, la
sua sacralità, appunto. Da ciò deriva un rispetto per il malato che
l'immagine di una macchina rotta - ad esempio - non può certo evocare.
Allora la malattia non la si spiega ma la si condivide, e nel romanzo si
ha una descrizione fantastica di questo atteggiamento proprio in chiusura.
«Non è raro che anch'io prenda in mano un oggetto qualunque e lo porti,
come lui, vicinissimo agli occhi, e studi i movimenti delle sue labbra per
riprodurne, quando le parole mi sfuggono, almeno le modulazioni più
chiare…i gorgheggi, i vocalizzi, i sospiri trepidanti». La follia è
diventata magia, rito, e qui si ha la sensazione di capirla, solo ora. «L'assillo
di ciò che forse sto per capire, l'idea che di lì a un giorno, magari a
un ora, potrei squarciare il velo che copre la succinta verità che ancora
mi viene occultata, insorgono più forti della stanchezza e del disimpegno».
Faccio lo psichiatra da più di quarant'anni, e in sintonia con questa
atmosfera ho voglia di dire soltanto di essere mezzo psichiatra e mezzo
matto, poiché ho partecipato - e dunque introiettato - la follia dei miei
matti. E come il fratello sano si scopre nella follia, io mi sono scoperto
psichiatra solo dentro il senso della follia che ho condiviso, fino a
perdermi. Lui, in questo smarrimento, ha la sensazione di essersi fatto
matto, sente che potrebbe essere vicino alla verità della follia. Mentre
io ancora la ignoro.
Ma questo romanzo va oltre l'incontro tra un fratello folle e uno sano,
riguarda tutte le relazioni tra fratelli, e forse ogni rapporto umano,
dove un Io si mette insieme con un Altro, in un confronto
che è di attrazione talora, e di repulsione qualche altra volta. Uno
specchio in cui uno cerca di fare l'altro, e viceversa, nello sforzo di
capirsi. In questo senso l'altro è sempre un'alterità che va riportata
dentro di sé, dentro la propria identità. Un gioco tra due persone, tra
due mondi che possono anche non capirsi, e l'uno diventa alienità, follia
per l'altro. Ma certo in questo mescolarsi si situa anche l'amore e
l'amore tra fratelli, come in questo romanzo di Samonà.
testo integrale tratto da "Avvenire"
- 12 ottobre 2004