IDEE
«La tv baby-sitter rispetta le aspettative degli adulti Ma in questa prospettiva i bambini rimangono oggetti passivi, che il piccolo schermo imbottisce o con la rappresentazione di una realtà concreta oppure tramite una fiction preconfezionata Così il giovane spettatore viene "risucchiato" nella trasmissione e non ha modo di interagire»

Va in onda l'ipnosi della coscienza

«Nell'infanzia ogni esperienza deve passare attraverso l'immaginario ed essere poi rielaborata mediante il gioco Ma dove sono i programmi che stimolano la creatività?» «Una televisione che voglia porsi il problema della sua incidenza formativa sulle personalità deve anzitutto depurarsi dall'odierna overdose di violenza e di demenzialità a buon mercato

di Vittorino Andreoli

Fino a dove arriverà la «rivoluzione televisiva» non possiamo saperlo. Tuttavia ci sono già sintomi precisi circa la flessibilità di questo mezzo, i quali fanno pensare a una sua penetrazione nella nostra vita fino ad oggi inimmaginabile. È il caso della possibilità di «personalizzare» lo strumento tv. Con spesa limitata, una madre può commissionare una videocassetta che la riprende mentre parla, sorride o imbocca il figlio. Così quando il bambino piange o fa i capricci, la nonna o la baby-sitter inseriscono il nastro e sullo schermo compare la mamma con immediato effetto tranquillizzante per il piccolo. E tutti diventano sereni: il bambino che vede la mamma e non si sente abbandonato, la nonna che non è più spaventata del pianto, la madre che non è costretta a rinunciare alla vita che conduceva prima della nascita del figlio. Possiamo così programmare diverse cassette in base alle esigenze delle varie ore della giornata: una con la mamma che saluta il bambino che si sveglia, l'altra per l'ora del pasto con lei che imbocca il piccolo, un'altra per i giochi del pomeriggio e una per la buonanotte. La comodità di una simile soluzione è evidente, anche se fa paura l'idea di sostituire la presenza con l'immagine.
Ci troviamo, comunque, davanti ad una televisione tutta «dalla parte degli adulti». I bambini rimangono puri oggetti passivi. La televisione li imbottisce o con le rappresentazioni della realtà concreta o, invece, tramite una fiction preconfezionata che richiede solo ricezione passiva. Nella tv, insomma, hanno trovato un compagno di giochi che sta divenendo sempre più ingombrante. Non dobbiamo dimenticare che si tratta di uno strumento. Da non demonizzare né canonizzare, sebbene ne vada controllato il ruolo ormai dispotico che sempre più spesso assume nella vita delle famiglie e in particolare dei bambini.
L'interrogativo di fondo, cioè, non attiene alla bontà astratta, quanto piuttosto alla modalità più adatta di utilizzare il televisore affinché pos sa diventare nel rapporto con il bambino un teatro di gioco. Non va sottovalutato il potere del mezzo mediatico di soffocare la capacità stessa di giocare, attraverso quella spaventosa facoltà di «risucchiare» il giovane spettatore dentro lo schermo.
Sappiamo che, nel bambino, la conoscenza si situa nel rapporto tra la realtà immaginativa e quella che sperimenta entro le coordinate spazio-tempo. Entrambe queste dimensioni sono fondamentali: se una delle due venisse a mancare o diventasse predominante sull'altra, la conoscenza non sarebbe più possibile. Tutti gli oggetti e le persone percepite sensorialmente sono ridisegnate nell'immaginario. Solo successivamente matura nel bambino un gioco simbolico capace di esprimersi con segni e strumenti legati in maniera semantica ad una realtà riconosciuta come oggettiva.

Nella strutturazione del rapporto del bambino tra immaginario e realtà la televisione ha ovviamente un peso rilevante. Il suo potere influisce sulla capacità creativa stessa. Con due risultati opposti: se la televisione è in grado di proporre modelli di azione «aperti», il bambino potrà farsi facilmente protagonista nella storia. Al contrario, se si rivolge ai più piccoli come ad una semplice «stazione ricevente» da cui non è attesa alcuna risposta, nessun dialogo e interazione con la «trasmittente», sia pure sul piano del fantastico, diventa una sorta di baby-sitter economica e un modo per uccidere il bambino socialmente. Una simile televisione genera patologie.
Compare così il «bambino televisivo», uno specchio che riflette automaticamente i messaggi che gli giungono in maniera indiscriminata, senza possibilità di ricrearli in dimensione partecipativa.
Non è facile dire come dovrebbe essere una televisione a misura di bambino. Sappiamo per certo che ha bisogno di offrire storie che possano essere completate da chi le guarda con la propria fantasia, le emozioni, i desideri. Oggi tutto quello che la televisione riesce a dare di positivo all'i nfanzia sono un po' di favole e una certa informazione. Cartoni animati, programmi sulla natura e le scienze, su popoli e paesi, insomma.
Ma non basta: per essere gioco la televisione deve diventare creatività, partecipazione affettiva. Sarebbe necessario che consentisse al bambino di sperimentare sentimenti forti e anche trasgressioni.
L'equazione da risolvere è allora come rendere partecipi i bambini ad un prodotto televisivo.

Per un adulto la soluzione è semplice. Ne sono esempio le telenovelas che fanno leva su grandi emozioni e pathos: amore, tradimento, disgrazia, morte. Per i bambini non esiste ancora un simile modello e sono sottoposti, invece, ad un bombardamento continuo di sequenze d'immagine calibrate sul mondo adulto. Ci si è spinti persino a ritenere adatti ai bambini spettacoli comici a base di risate demenziali, con il risultato di sottoporli ad una ambiguità estrema e doppi sensi che sono assolutamente dannosi per la fantasia.
Per tentare di risolvere l'equazione proposta, bisogna piuttosto avvicinarsi al modelli del confronto sportivo. Una partita di calcio altamente agonistica rappresenta uno schema di partecipazione molto efficace per il bambino. Infatti suscita un coinvolgimento totale, implicando una serie di reazioni molto attive che rispecchiano l'andamento del gioco in campo. Un'immedesimazione talvolta persino troppo forte.
La soluzione, teoricamente possibile, è tuttavia ancora lontana, perché il bambino si presenta come utente che non ha alcuna forza contrattuale, mentre invece è molto appetibile per tutto il circo di marketing e pubblicità che lo ritiene bersaglio privilegiato per migliorare, attraverso la pubblicità, le vendite.
Rimane a questo punto da domandarsi quale impatto abbia la televisione sull'acquisizione da parte dei bambini di modelli di comportamento, per secoli sperimentati attraverso l'osservazione degli adulti e la ripetitività del gioco, che è, come si è avuto modo di dire, imitazione e trasgressione a l contempo. Insomma, fino a che punto il bambino può mimare un comportamento televisivo, trasferendolo nella sua vita?
Temo che, nelle tre ore e mezza che il piccolo spettatore trascorre mediamente davanti al televisore, subisca un tale bombardamento di azioni opposte, che finisce per non avere nessun modello da imitare. Alla base dell'imitazione, infatti, ci sono la costanza e la ripetitività, affinché il bambino possa riconoscere un dato comportamento e lo rappresenti in un'elaborazione personale. Al contrario la programmazione televisiva offre un flusso caotico nel quale non emerge un modello costante e preminente, ma ogni comportamento viene immediatamente neutralizzato dal suo antagonista.
Il risultato è più spesso quello della saturazione e del rifiuto di qualunque modello. Tutto appare identico e intercambiabile: il bene con il male, la violenza con l'altruismo, l'ingiustizia con la giustizia. A seconda dell'ora e del tasto sul telecomando.
Nonostante la televisione, compagni di scuola, insegnanti e genitori o adulti appartenenti al proprio mondo sociale rimangono la fonte primaria dei comportamenti da imitare per i bambini. Tuttavia, spesso, anche nelle famiglie prevale un codice di ambiguità.
La violenza si propone come uno dei modelli prevalenti tra quelli offerti dall'affollamento televisivo. È diventata spettacolo e come tale viene «venduta». Anche in questo caso il problema per il bambino assume un contorno preciso: perché nell'osservare di continuo scene di violenza si rischia che venga percepito come un fenomeno normale, ordinario. Un'assuefazione che poi ottunde la sua reazione a quel comportamento, quando la vede nella vita di tutti i giorni.

Insomma, il pensiero nel bambino che assista ad un diverbio o ad una prepotenza reale sarà paradossalmente diretto alla «regia più scadente» che sta dietro il concreto rispetto alle scene viste in tv. Ma nessun sentimento di indignazione o impegno contro di essa.
Ecco allora che il vero danno della televisione diventa quel suo funzionare come sedativo sulla coscienza. Il discorso, naturalmente, vale per il bambino come per il giovane e l'adulto. Non c'è distinzione sebbene mutino le età. Diverso sarà solo l'impatto sull'uno e sull'altro e cambierà anche il grado di assuefazione, ma la reazione permane identica.
Una televisione che voglia porsi il problema di una sua incidenza formativa per le coscienze e, quindi, di gioco nel senso proprio di spazio creativo e costruttivo della personalità, deve depurarsi dall'odierna overdose di violenza e demenzialità a buon mercato.

 testo integrale tratto da"Avvenire" - 25 novembre 2003