IDEE

I format della violenza

Quando si assiste a versioni uniche date dai media degli avvenimenti è certo che viene meno il pluralismo e si toglie la possibilità di dubitare che la verità sia quella presentata

di Vittorino Andreoli

La violenza del sangue, la violenza che rompe il corpo, che lo limita transitoriamente o per sempre, e che talora porta a morte, non è la sola forma di violenza. Una convinzione del genere porterebbe inevitabilmente a considerare tutte le altre forme come non-violenza e dunque a renderle permesse, o a sviluppare comunque una sorta di accettazione passiva.
Neppure si deve pensare che solo quella delle ferite sia violenza visibile e rappresentabile dal mezzo televisivo, poiché anche la violenza che non sparge sangue è evidente e persino imitabile, e pertanto rientra fra i contenuti critici del piccolo schermo.
La violenza psicologica è quella che si rivolge agli aspetti psicologici della persona, ai bisogni della personalità, nei suoi diritti sia razionali che affettivi. Si può uccidere una persona senza colpirla nel corpo. L'esempio più significativo è l'abbandono, la solitudine. Non si fa nulla, eppure si toglie di senso alla persona, che è come se non ci fosse, se non esistesse, come se si fosse fatta trasparente, dentro un mondo che ne ignora completamente la presenza. La solitudine in mezzo alla folla, e non appunto in un casolare di montagna o in una cella eremitica. La solitudine assaggiata tra chi dovrebbe darti dignità e farti sentire la sua considerazione.
Basta un gesto di esclusione, di discriminazione, per cui si saluta uno e non colui che gli sta vicino, per colpirlo e ferirlo. Del resto ciascuno di noi è in grado di cogliere questa violenza proprio attraverso il termine di ferita personale e, ancor più, nella ferita narcisistica, quando si sente colpito mortalmente da un rifiuto o da una estromissione, dall'esser stato lasciato. Non si è sparsa una goccia di sangue, ma è come se una strana pistola avesse colpito la personalità, le sue istanze ed esigenze che sono altrettanto importanti dell'ossigeno per i polmoni. La fiducia, l'affetto, il ruolo, la considerazione sociale: sono elementi di questa fisiologia della psiche senza i quali essa muore. Le motivazioni a vivere sono condizioni di vita psichica senza le quali persino il corpo non vive.

La depressione è, sul versante patologico, l'esempio più drammatico di questo binomio inscindibile di psiche e corpo. Tanto che si può ormai programmare un omicidio partendo dalla eliminazione della psiche e poi assistere, come effetto secondario, alla morte anche del corpo. E si può uccidere persino spingendo ad un lento suicidio. Nella depressione gli organi si ammalano e persino il rischio di cancro è maggiore rispetto a persone in stato di equilibrio psichico oppure, ancor più evidente, a persone inserite socialmente e felici.
Non è facile separare la violenza sociale dalla violenza psicologica, proprio per lo stretta interrelazione tra la dimensione dell'Io e quella del Noi, come appartenenti al gruppo sociale. Anche in questo caso il riferimento ai diritti è obbligatorio. Esistono diritti sociali, esigenze di vivere nella società, che permettendo un inserimento e un adattamento rendono possibile acquisire un ruolo e dunque un senso per gli altri.
Il diritto a essere rispettati è essenziale; il diritto all'amore, e dunque a raggiungere una condizione che entra poi nella finalità di continuare la comunità; il diritto al lavoro, alla sicurezza sociale. Non si tratta di optional, bensì di beni indispensabili in quanto entrano nello stile di vita e nella sicurezza del singolo, che significa controllo dell'angoscia e del pericolo di essere emarginati. Alla emarginazione si lega parte dei comportamenti violenti e di rottura sociale.
È fuori di dubbio che se in una «società del merito» si impone la raccomandazione come violazione di questa regola, si esclude chi ha meritato e si induce frustrazione e opposizione sociale.
In senso più ampio, si potrebbero definire maschere di violenza anche la povertà e la miseria.
Se una società che manca dei beni primari vive vicino, a contatto persino, con una società dello spreco, si dipinge uno scenario di violenza, sia pure da lle belle maniere, che può addirittura far sentire il violento inconsapevole come buono, perché può fare la carità o "assistere" il povero.
Una forma di violenza è la menzogna, in quanto inganno sapendo di ingannare. Strumento per essere disonesti volendo apparire probi e innocenti. In una società della menzogna diventa impossibile riconoscere il vero, la sua regola diventa il "verosimile". Più che essere onesti e saggi importa farlo credere, e allora anche il più grande delinquente si racconta seguendo la biografia e le gesta degli onesti. E diventa sciocco faticare per mantenere una coerenza, per difendere la propria identità e dignità: segno di non aver capito il mondo. E cambiano i termini, il vocabolario, per legittimare questa nuova disposizione sociale. Il menzognero non è un falso, ma uno che sa adattarsi. È flessibile come richiede una società accelerata, una società della trasformazione e della metamorfosi continua. Non esistono più regole fissate, ma solo strategie di soluzione dei problemi, inclusa la menzogna.
Si può anche mentire a se stessi, e finire per confondere i piani di esperienza e di identità, per essere contemporaneamente "uno, nessuno e centomila". Si deride chi ha un'etica che lo porta a mantenere un legame matrimoniale oltre i quattro-cinque anni. Come fosse segno di demenza.
La menzogna può diventare logica del racconto televisivo e di certa cronaca giornalistica. Si può tacere un evento, posizionarlo in modo tale da farlo passare inosservato, o non suscitare alcun interesse. Oppure si può costruire e "inventare" letteralmente una sua rilevanza e centralità. Importante è la sequenza, il titolo, il tono, la contestualizzazione.
Le mille tecniche della menzogna e della mezza verità: il non dire, il dire in un certo modo, l'alludere, l'interpretare a senso unico. Vengono in mente le notizie di carattere politico e le versioni date dalla maggioranza e dalla opposizione, sempre all'antitesi.
Il pluralismo dei media è considerato la migli ore garanzia contro la menzogna: peccato che i telegiornali oggi sembrino d'accordo sul peso da dare alle notizie, seguendo lo stesso ordine di presentazione, un'identica titolazione. Se tutti raccontano una stessa menzogna, ecco definita in maniera precisa la verità e soprattutto eliminata la possibilità di dubitare che sia quella presentata.

Questo esito apparentemente paradossale è dovuto al fatto che giornali e notiziari televisivi selezionano le notizie secondo gli stessi criteri di rilevanza; si osservano reciprocamente per evitare di trovarsi "scoperti" su fatti o situazioni che gli altri invece trattano; costituiscono un sistema gerarchico nel quale alcuni di essi, per maggior potere e prestigio, diventano dei leader d'opinione per tutti gli altri strumenti, stabilendo così una gerarchia di temi e modalità di trattazione che tutti poi assumeranno.
In questo modo diventa molto più difficile individuare la menzogna e correggerla. Insomma, la menzogna come segno di professionalità scaduta.
La stupidità come violenza è sorella della menzogna e forse una delle sue forme più pericolose perché non è episodica, ma può diventare uno stile di vita, un costume in cui si gestiscono le relazioni umane e si perpetuano soprusi.
È certo la stupidità a discriminare l'uomo a seconda degli oggetti posseduti e mostrati. È stupidità il considerare il colore della pelle una distinzione di natura e di umanità. È stupidità reggere una società sulla cultura del nemico, che significa combattersi in un lotta per primeggiare, facendo dominare l'odio più o meno mascherato e non la bellezza della coesione e delle sue forme "minori" di legame sociale. È stupidità promuovere uno sport che si fa violenza da stadio. È stupidità gestire locali eleganti in cui si produce musica e che in realtà sono supermercati della droga. Si guadagna sul biglietto di ingresso e sulla droga smerciata.
È stupidità non mettere i giovani in condizione di avere una preparazione dello stesso livello dei co etanei europei.
La stupidità, in altri termini, è l'atteggiamento che porta a dare soluzione ai problemi guardando agli effetti immediati e non alle conseguenze più vaste e profonde. Alla stupidità appartiene la furbizia, l'abilità a ottenere quello che serve in quell'attimo senza pensare al dopo. Stupidità è la mancanza di programmazione. Stupidità è l'incoerenza e la mancanza di prospettive, del senso della storia, della costruzione, senza la quale non si dà progetto educativo. Stupidità è l'improvvisazione, come forma di menzogna sistematica. Approvare l'inganno e premiarlo più dell'impegno.
Una società stupida è anche violenta e avrà necessariamente un sistema di comunicazione superficiale.

C'è bisogno di riportare nel mondo la filosofia, la teologia, la meditazione e il silenzio, oltre all'economia. Oltre alle riunioni imperative di lavoro e di produzione per il consumo. Ridotto alla sola dimensione dell'economia, l'uomo è colui che consuma, e non colui che è dentro il mondo in una esperienza in parte ineffabile e indicibile: dentro il mistero che non si riduce alle leggi del mercato e della finanza.

testo integrale tratto da "Avvenire" - 26 agosto 2003