"Tempo Perso - Alla ricerca di senso nel quotidiano"

I siciliani sono i più poveri d’Italia

di Tano Gullo

La Sicilia è sempre più povera: il 29,9 per cento delle famiglie sopravvive a stento in condizione di precarietà. I dati dell’Istat relativi relativi all’anno scorso, che vedono la nostra regione al primo posto nella classifica del malessere italiano, mettono a tacere i proclami trionfalistici dell’aminnistrazione di centrodestra che dipinge un’isola che non c’è, un paese della cuccagna fatto di benessere, lavoro, investimenti e opere realizzate.

        In questo sprint della miseria abbiamo staccato di quasi un punto e mezzo percentuale la Basilicata con la quale nel 2003 marciavamo affiancati (il 25,8 per cento contro il 25,6) e ci siamo allontanati, precipitando verso il basso, dalle altre regioni.

Ecco i dati: la media nazionale dei nuclei famigliari poveri, stimata all’11.7, suggerisce riflessioni amare quando andiamo ad analizzare il dato differenziato per territorio, 4.7 al Nord, 7.3 al centro e 25 al Sud. In Italia 2.674.000 di famiglie cioè circa 7 milioni e mezzo di persone, vivono tra gli stenti; la maggior parte di esse abita al Sud, dove nel l’ultimo anno i poveri sono aumentati del 4 per cento. Una forbice che fa ampliare ancora di più il divario con il Nord, dove si registra una certa stabilità economica.

       Nell’Isola circa due milioni di persone sono attanagliate dalla quotidiana difficoltà di vivere. L’Istat infatti considera relativamente povero il singolo che dispone di un reddito di 552 euro e un nucleo di due persone cha ha risorse per 919 euro (e così via fino a 2.208 euro per famiglie con sette e più componenti).

        Oltre alla povertà, ci sono altri record negativi che purtroppo sono ulteriori palle al piede dei siciliani: la criminalità e la disoccupazione ai massimi livelli nazionali e un servizio sanitario scadente di cui le cronache dei giornali in questi giorni hanno evidenziato vittime, magagne, ruberie e carenze. E’ la qualità della vita che in questo angolo del di Mediterraneo procede a marcia indietro.

         La miseria si espande a macchia d’olio tra gli anziani, tra le donne, nelle famiglie numerose, tra i disoccupati,  ma anche nei nuclei monoreddito, tutti alle prese con un incalzante aumento del carovita – affitti, bollette e benzina alle stelle – alla faccia dell’incremento dei prezzi al consumo stimato dalla stessa Istat al 2 per cento circa annuo. C’è poi da sottolineare anche l’aspetto psicologico che trascina nel territorio della povertà anche i ceti medio bassi che si percepiscono più in difficoltà di quanto in realtà siano. E questo provoca , disagi, privazioni, e rinvio di spese che finiscono con impantanare di più il ristagno dei consumi.

         Ricostruito questo quadro a fosche tinte proviamo a capire come la Sicilia riesca in qualche modo a sbarcare il lunario schivando il crac incombente. Finora il gap tra povertà e sopravvivenza è stato colmato da due “motrici”: l’arte di arrangiarsi (inventiva, precariato, vendita ambulante e lavoro nero) che ha rimpinguato gli scarsi introiti individuali e la famiglia estesa che si è fatta carico di risolvere i problemi del singolo componente in difficoltà. Così genitori, fratelli, zii e cugini,  sono diventati di volta in volta, banca a cui chiedere un prestito, mensa dove sfamarsi nei giorni difficili, albergo dove alloggiare dopo lo sfratto, la “fuitina” o la perdita del lavoro, asilo dove parcheggiare i ragazzini, taxi per arrivi e partenze, traslocatori, prestatori di servizi vari e cosi via in un’escalation di solidarietà. Anche se questo modello negli ultimi tempi è in crisi – per lo sfilacciamento progressivo del quadro sociale – tuttavia riesce ancora ad offrire un approdo nei periodi tempestosi della vita. La famiglia, anche se non più patriarcale, continua a svolgere un ruolo di primo piano in un contesto dove c’è il deserto, dove lo Stato sociale si presenta ancora con il volto del clientelismo, dove i diritti continuano a essere elargizioni di favori, in una vischiosa ragnatela di dare e avere.

           Si ampia il divario con il Nord e si dilata quello tra i ceti sociali della stessa Isola. Aumenta il numero dei nostri giovani che vanno a studiare nel Settentrione o all’estero (una cifra vicina al 10 per cento), ma a ben guardare sono solo esponenti delle classi alte. Per contro sorprende l’esclation dell’emigrazione. Partono i laureati senza santi in paradiso che qui non trovano sponde  in cui approdare, ma prendono il treno migliaia di disoccupati senza speranza. Un esodo che spoglia la Sicilia di cervelli e di braccia. Si delinea una terra di nessuno, classista e senza futuro.

           Questa erosione del quadro economico preoccupa anche il ceto imprenditoriale. Il presidente della Confidustria Luca Corsero di Montezemolo ha detto che non si può accettare l’incremento di disuguaglianze che colpisce il Sud. E ha aggiunto: “Una classe dirigente che si rispetti deve farsi carico di questi problemi, agendo e lavorando, perché il futuro dipende da noi.” Parole pesanti che fanno riflettere sulle linee di tendenza che procedono in direzione opposta sia del governo nazionale, ostaggio dei ricatti leghisti che vedono il Sud come il fumo negli occhi, sia di quello siciliano che vagheggia un isola di Bengodi. Una volta, quando la centralità dell’impresa stava nella produzione, i ricchi avevano bisogno dei poveri per prosperare. Oggi che la centralità è stata occupata dal mercato, hanno bisogno soprattutto dei consumatori. Ma con poche lire in tasca c’è ben poco da consumare.

     Testo integrale tratto da “La Repubblica – Palermo” 7 ottobre 2005