testo integrale tratto da HOREB 37 gennaio-aprile n. 1/2004 | |
La libertà nella Chiesa, quali cammini possibili? di Giuseppe Ruggieri La domanda, così come mi è stata posta, suppone una problematicità. Si vuole sottindendere infatti che per lo meno non tutti i percorsi della libertà nella chiesa siano “possibili”. Ma la domanda, così come mi è stata posta, manifesta altresì chiaramente un’esigenza: che non si parli in astratto della libertà nella chiesa, del suo ideale, del suo dover essere, ma di ciò che è concretamente possibile. Non voglio evadere la domanda con tutti i suoi sottintesi. Il teologo infatti ha tra l’altro il compito di confermare le sorelle e i fratelli nella fede proprio attraverso l’apporto critico che gli forniscono i due famosi “occhi” della teologia: la storia e la ragione. Fa quindi parte del suo codice deontologico assumere la criticità delle domande che i cristiani si pongono, attingendo sia alle lezioni della tradizione che a quelle del pensiero contemporaneo che si esprime nelle istanze e dei valori condivisi. Che cosa intendiamo per “libertà nella chiesa”? Dalla storia sappiamo che già il vocabolario oscilla. La “libertà della chiesa” per la quale lottavano i papi e i vescovi medievali (il più famoso di tutti resta Gregorio VII), non è esattamente la stessa cosa della libertà a cui ci genera l’accoglimento del vangelo secondo Paolo e nemmeno la libertà nel senso moderno della libertà di pensiero e di parola, o con quello delle pari opportunità offerte a tutti i membri di una medesima società. Essa coincideva piuttosto con il riconoscimento pubblico dei “privilegi” della chiesa nella società. Questa accezione della libertà, come garanzia per la chiesa nella sua esistenza pubblica, non è tramontata, anzi è più viva che mai, anche se sotto motivazioni differenti da quelle medievali. Tale per esempio è il significato della libertà della chiesa nel titolo II della II parte del libro VI del Codice di diritto canonico (“Delitti contro le autorità ecclesiastiche e la libertà della chiesa”). Sarebbe ingenuo, contro quest’uso, rifarsi al significato del termine nel Nuovo Testamento. Il sostantivo stesso “libertà” (eleutheria) ritorna nel NT 11 volte, di cui ben 7 volte in Paolo, 2 in Giacomo e 2 nelle lettere di Pietro. Ma il suo significato non è univoco. In Rm 8,21 sembra indicare l’avvenimento escatologico stesso, in 1Cor 10,29 sembra invece alludere al diritto della coscienza a non essere giudicata nelle proprie scelte. Ma, sempre in Paolo, prevale l’accezione della libertà come frutto della presenza dello Spirito in coloro che credono, per cui si è liberi sia dal peccato che dalla legge. Giacomo invece, che non conosce l’opposizione paolina tra la legge e il vangelo, parla di una «legge perfetta della libertà» (1,25) o della “legge di libertà” e sembra intendere la parola stessa del vangelo, soprattutto come comandamento dell’amore (Mussner, ma il Jerome Biblical Commentary interpreta l’espressione con una sfumatura diversa). E le lettere di Pietro non danno al termine un’accezione specificamente cristiana che, Paolo e Giacomo, anche se in maniera differente l’uno dall’altro, invece danno. Questi brevi cenni mostrano come, senza nemmeno prendere in esame gli usi neotestamentari dell’aggettivo “libero” e del verbo “liberare”, ne abbiamo già d’avanzo per mettere in guardia dall’uso non chiaro del termine. Cosa vogliamo dire quindi parlando di libertà nella chiesa? Se spulciamo il Codice di diritto canonico attualmente vigente nella chiesa cattolica troviamo un riconoscimento vasto della libertà, ma nel senso piuttosto negativo di immunità da costrizioni esteriori. Così viene garantita la libertà delle elezioni nei vari organismi ecclesiali, quando esse siano previste (canone 170) e viene prevista una pena canonica per i trasgressori (canone 1375). Il canone 218 inoltre garantisce la libertà di ricerca nelle scienze sacre «conservando il dovuto ossequio nei confronti del magistero della chiesa». Similmente il canone 386 afferma che l’unità della fede non deve essere messa in contrasto con la «giusta libertà nell’ulteriore approfondimento della verità». Il canone 227 garantisce ai fedeli laici la libertà comune ad ogni cittadino nella partecipazione alla vita civile. Nel canone 239 viene affermata la libertà dei seminaristi di scegliersi un direttore spirituale diverso da quello ufficiale. E il canone 630 garantisce analoga libertà ai religiosi, nonché il diritto a non dover svelare i segreti della propria coscienza ai superiori. A maggior ragione viene condannata qualsiasi costrizione nei confronti degli ordinandi sia in senso positivo, conferendo l’ordinazione a coloro che non sono sufficientemente liberi, sia impedendola a coloro che ne sono idonei (canone 1375). Così come, in un processo, è dovere degli ordinari garantire in tutti i modi la libertà dei testimoni (canone 1722). La dottrina del magistero sulla dignità e libertà della persona umana costituiscono uno dei contenuti obbligatori della predicazione (canone 768.2) e il retto uso della libertà è uno degli obiettivi dell’educazione cattolica (canone 795). Anche la libertà della scelta della scuola per i figli appartiene ai diritti riconosciuti dal codice (canone 797). E, come residuo di una concezione privatistica della celebrazione eucaristica, viene garantita la libertà di celebrare l’eucaristia “in modo individuale”, anche se non contemporaneamente ad una concelebrazione che si tenga nella stessa chiesa. Sembra, sulla base del linguaggio usato dal Codice della chiesa, legittimo quindi dare alla “libertà nella chiesa” un significato che potremmo chiamare “garantistico”. Nella chiesa vanno garantiti certi diritti analoghi a quelli che valgono per l’ambito più vasto della convivenza civile. Tuttavia, teologicamente, il significato della libertà nella chiesa non può essere ridotto a questa dimensione. L’insegnamento patristico sulla libertà, da Ireneo ad Agostino, ancora la libertà alla comunione con Dio. Lo schema del ragionamento è molto semplice: volendo Dio chiamare l’uomo alla comunione con sé, proprio perché il rapporto di comunione presuppone la libertà del dono di sé, non poteva non volere l’uomo libero. Ma, giacché, questa libertà è ferita in conseguenza del peccato, il battesimo rappresenta il momento reintegratore nella libertà originaria e la chiesa è il luogo di educazione alla libertà (Cf. Dictionnaire de spiritualité 9, 809-824). In questo senso, che è quello che noi scegliamo, occorrerebbe approfondire in che modo nella chiesa siano possibili itinerari di libertà, nel senso del libero scambio di doni che costituisce la vita nella comunione. Si tratta di itinerari concreti, che possiedono sempre, sia pure implicitamente, un qualche grado di istituzionalizzazione, ed i quali, prima ancora di essere teorizzati, per il loro stesso esercizio, sono espressione della libertà. Proviamo ad enumerarne alcuni. I processi di comunicazione La prima espressione della comunione è nella comunicazione vicendevole della propria sensibilità spirituale. Il fatto che noi consideriamo spesso la comunicazione di un’opinione differente come “contestazione critica” proviene dall’assimilazione della comunicazione ecclesiale alla dialettica politica. È vero che spesso chi esprime questa opinione differente, con il suo stile maldestro, è all’origine stessa di questo equivoco. Ma è altresì vero che la stessa autorità ecclesiale fa spesso fatica a recepire nello spirito della comunione le manifestazioni non allineate, anche quando queste siano rispettose. Eppure è proprio il Codice che garantisce il diritto ad una siffatta comunicazione. Recita infatti il canone 212 al comma 3: «In modo proporzionato alla scienza, alla competenza e al prestigio di cui godono, essi (i fedeli) hanno il diritto, e anzi talvolta anche il dovere, di manifestare ai sacri Pastori il loro pensiero su ciò che riguarda il bene della Chiesa; e di renderlo noto agli altri fedeli, salva restando l'integrità della fede e dei costumi e il rispetto verso i Pastori, tenendo inoltre presente l'utilità comune e la dignità della persona». La storia della chiesa postconciliare ha mostrato troppe volte come siano le stesse autorità ecclesiali a far fatica a recepire il dettato di questo canone. Eppure esso rappresenta una via obbligata. Non già nel senso che ci sia bisogno di esso per aumentare la “contestazione”. In una società come quella contemporanea, è impossibile comprimere il diritto di espressione e i ripetuti interventi autoritari non fanno che rendere infecondi e sterili gli inevitabili conflitti. Il dettato del canone, anche se non completamente recepito nella chiesa attuale, sta piuttosto a significare che deve crescere in tutti lo stile di comunione nella vicendevole comunicazione delle proprie convinzioni. I processi di partecipazione La comunione non è viva se non ha l’apporto di tutti. E questo non per una concezione democraticistica della comunione, quasi che la comunione venga dal basso (equivoco spesso condiviso nelle varie teorie della “chiesa dal basso”). Che invece l’apporto libero di tutti sia necessario alla comunione della chiesa, è un’esigenza che deriva dalla dimensione trinitaria della comunione: giacché è lo Spirito che distribuisce a tutti doni, secondo la misura di ognuno, perché tutti cresciamo nella maturità del Cristo verso l’unità con il Padre. Impedire la partecipazione di tutti coloro che sono stati “graziati” dallo Spirito, significa quindi ignorare e rinnegare lo Spirito che fa vivere la chiesa. I medievali, in un contesto niente affatto democratico, avevano un sano principio che suona come terribile contestazione all’autoritarismo ancora dominante nella chiesa: «Ciò che tocca tutti deve essere trattato da tutti». La dottrina della chiesa come comunione, che è stato il principale apporto ecclesiologico del Vaticano, II non ha dato ancora i suoi frutti in tal senso. Grida ad esempio vendetta al cospetto di Dio il fatto che, in contrasto con la tradizione più antica della chiesa, il popolo credente (e il clero diocesano) sia totalmente estromesso dall’elezione del proprio vescovo. Non si tratta di fare dell’archeologia e pensare che possano essere risuscitate nel momento attuale procedure possibili nella chiesa del III secolo. Le forme di partecipazione possono cambiare, ma non la sostanza dell’agire comunionale di tutta la chiesa. Ma, al di là dell’elezione del vescovo, è il ripristino della sinodalità che va portato avanti a tutti i livelli della vita ecclesiale. La sinodalità è la pratica ecclesiale della comunione. Essa vuol dire semplicemente la necessità di percorrere la strada del pregare, del riflettere e del decidere assieme [sinodo vuol dire “strada in comune”], per capire l’appello del Signore in un preciso momento della propria storia. Sono i capitoli degli ordini monastici e delle congregazioni religiose che restano nella chiesa, più delle parrocchie e delle diocesi, i depositari di questa via tradizionale della partecipazione nella costruzione della comunione. I cosiddetti “organismi rappresentativi” che sono sorti in epoca conciliare spesso non riflettono questa mentalità “sinodale”. Per lo più infatti essi non rappresentano la totalità dei battezzati e non vengono costituiti secondo criteri eucaristici (come espressione cioè della chiesa effettiva, di quella che si raduna per l’eucaristia), ma secondo criteri burocratici e tenendo conto delle “classi” esistenti nella chiesa (organizzazioni curiali e pastorali, movimenti etc.). Per questo rappresentano un’ulteriore frattura tra cosiddetti operatori pastorali e popolo credente, invece di essere espressione della libertà nella comunione. La prassi sinodale costituisce oggi lo snodo per la crescita della libertà nella chiesa a tutti i livelli: da quello di un eventuale “sinodo permanente” attorno al vescovo di Roma, al “sinodo dei vescovi”, alle conferenze episcopali, alla singola diocesi, alla parrocchia, al gruppo. La chiesa come luogo di educazione alla libertà Il caso esemplare è quello descritto da Paolo in occasione della disputa presente nella chiesa di Corinto sulle carni consacrate agli idoli (1Cor 8-10). Di per sé, per il cristiano che crede nella vittoria di Cristo su tutte le potenze demoniache, la carne degli animali uccisi per i sacrifici nei templi pagani equivale a quella degli altri animali ed è quindi perfettamente lecito cibarsene, soprattutto se costa di meno, o quando si è invitati a tavola da un pagano. Ma ci sono dei cristiani “deboli” che non riescono ad accettare questa libertà. E c’è anche il non credente il quale potrebbe pensare che, mangiando di quella carne, si condivide la sua fede nei sacrifici offerti agli idoli. Quindi, davanti a loro, è bene astenersene. Il più forte nella fede si adegua così al più debole. La capacità di “donare la propria libertà” per la crescita dell’altro è un’espressione ancora più grande della mia libertà. Se cioè la libertà è il presupposto della comunione, dello scambio vicendevole del dono di noi stessi, essa non può essere rovesciata in momento dissolutore della comunione stessa: la libertà deve donare se stessa. Il criterio è la sua utilità all’edificazione dell’altro. Solo così si afferma una libertà che non è giudicata da nessuno: «Ogni cosa è lecita, ma non ogni cosa è utile; ogni cosa è lecita, ma non ogni cosa edifica. Nessuno cerchi il proprio vantaggio, ma ciascuno cerchi quello degli altri. Mangiate di tutto quello che si vende al mercato, senza fare inchieste per motivo di coscienza; perché al Signore appartiene la terra e tutto quello che essa contiene. Se qualcuno dei non credenti v'invita, e voi volete andarci, mangiate di tutto quello che vi è posto davanti, senza fare inchieste per motivo di coscienza. Ma se qualcuno vi dice: «Questa è carne di sacrifici», non ne mangiate per riguardo a colui che vi ha avvertito e per riguardo alla coscienza; alla coscienza, dico, non tua, ma di quell'altro; infatti, perché sarebbe giudicata la mia libertà dalla coscienza altrui?»(1Cor 10,23-29). Una chiesa della comunione diventa così scuola nella quale si apprende la vera natura della libertà, che è tale solo se si dona, che anzi celebra se stessa in maniera perfettamente adeguata proprio nel donarsi. Ma questo presuppone una disciplina della comunione e non del comando. La disciplina della comunione non è tuttavia una disciplina facile. A volte diventa molto difficile discernere se la propria convinzione di coscienza debba essere espressa, sapendo che essa provocherà lo “scandalo dei pusillanimi”. La comunione della chiesa non è ritratta fedelmente in un quadro idilliaco con i colori tenui, dal rosa al lillà, che descrivono dolci figure adagiate su prati fioriti. Lo stesso Paolo che chiede ai cristiani di Corinto di essere magnanimi di fronte alla debolezza della fede altrui, diventa irruente di fronte a Pietro che, per “timore dei circoncisi”, rifiuta ad Antiochia la mensa comune con i cristiani non circoncisi, e gli si “oppone a viso aperto”, rimproverandogli di non «camminare rettamente verso la verità dell’evangelo» (Gal 2, 11-14). La disciplina della comunione non è quindi contenibile in regole precise. Ultimamente è inevitabile che esplodano i conflitti e che il cristiano li viva affidandoli al giudizio di Dio, con “umile risolutezza”, sapendo che tutti portano il tesoro di Dio in vasi di creta. La chiesa non appartiene a nessuno, ma solo al Padre di Gesù Cristo che la fa crescere attraverso le vie dello Spirito. La libertà degli altri Proprio perché la libertà è il presupposto della comunione degli uomini con Dio, sigillo impresso quindi da Dio stesso nell’umanità tutta, i cristiani soffrono per la mancanza di libertà degli uomini come tali. Sarebbe falso costruire anche qui un discorso idilliaco e tanto più falso quanto più idilliaco. Nella storia spesso le chiese sono state conniventi con i nemici della libertà umana, in funzione della “libertà della chiesa”. Bisogna in tal senso essere grati a Giovanni Paolo II per il coraggio mostrato nel chiedere più volte il perdono per la chiesa per le sue pecche in tal senso. E non è un caso che la passione per la libertà degli uomini tutti nelle chiese cresca ai nostri giorni, in misura proporzionale al loro diventare più povere, meno legate ai rapporti del potere mondano. La passione per la libertà di tutti è l’altra faccia della povertà delle chiese. Il cammino della libertà, come il cammino della pace e quello del vangelo stesso, è cioè “indivisibile”. Direi anzi che è per sua natura “sistemico”, nel senso che comporta la trasformazione di tutte le altre parti che costituiscono l’esperienza del cristiano. Non si è liberi se non si è poveri, se non si è non-violenti, se non si è misericordiosi e se non lo si è in tutti gli ambiti vitali, privati e pubblici, interiori ed esteriori, familiari e sociali, ecclesiali e politici. Il cammino della libertà, quale ci viene aperto dal vangelo della riconciliazione e della comunione donata da Dio agli uomini, abbraccia tutta l’umanità, abbatte gli steccati, impedisce persino di tracciare spazi sicuri alla libertà. La libertà infatti non è un privilegio. La cultura moderna dice che è un diritto ed anche la chiesa nella dichiarazione conciliare sulla libertà religiosa lo riconosce. Ma il vangelo dice, in maniera molto più radicale, che è un dono. È un dono che costituisce la condizione stessa immessa da Dio nella creazione. E questa adesso «aspetta con impazienza la manifestazione dei figli di Dio; perché la creazione è stata sottoposta alla vanità, non di sua propria volontà, ma a motivo di colui che ve l'ha sottoposta, nella speranza che anche la creazione stessa sarà liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella gloriosa libertà dei figli di Dio» (Rm 8,19-21). Giuseppe Ruggieri P.zza Dante, 32 95124 Catania
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