NATURA E FEDE


Gaia assassina, Dio non onnipotente
Universo Combattere la violenza sapendo che la vita è mortale
 
di ENZO MAZZI


Di fronte all'«apocalisse» ho immediatamente provato come un senso di ostilità verso «madre natura». L'ho sentita nemica, una madre assassina. L'inquietante e angoscioso sentimento è stato provvisoriamente rimosso. Annegato nell'impegno per alimentare la solidarietà e per amplificare il più possibile quel campanello di allarme mirabilmente testimoniato da Vandana Shiva sul manifesto del 7 gennaio. La distruttività di Gaia trova alleati nel sistema di dominio del mondo. Vengono perseguiti fanaticamente «modelli di sviluppo che ignorano i costi ecologici e la vulnerabilità a favore della crescita a breve». La lotta politica contro quei poteri, l'impegno per un modello di sviluppo sostenibile, alleato della giustizia e della pace, è la nuova strategia di sopravvivenza dell'umanità. Detto questo, il problema della distruttività di Gaia resta. Chi crede in Dio «creatore onnipotente» scioglie in lui il fondo del problema. Il mistero di Dio tappa ogni buco nero della razionalità impotente. Da molto tempo ho messo in discussione l'onnipotenza divina. Sono in compagnia non solo di tanta gente comune, la gente della strada a cui mi accompagno, la più saggia per me, ma anche di una crema di teologi. Non amo le citazioni colte. Proprio perché amo la saggezza popolare. Ma tanto per difendermi dall'accusa di attentare alla fede....

Ad esempio Dietrich Bonhoeffer, il grande teologo evangelico impiccato nel campo di sterminio di Flossemburg a causa della sua opposizione al nazismo fino a cospirare contro Hitler. Durante la prigionia contestualizza con forza nuova l'interrogativo cruciale: dov'è Dio nell'orrore dei campi di sterminio? Giunge così a negare l'onnipotenza divina e a immaginare una società umana che vive e si organizza nella piena laicità «come se Dio non ci fosse».

Ma che Dio è un essere impotente? Non è come negare l'esistenza di Dio? O forse no?

Jùrgen Moltmann, un altro grande teologo, in Teologia della speranza, si domanda, sulla scia dell' «eretico» marxista Ernst Bloch, se Dio sia una realtà fissa, assoluta, o se invece non sia in trasformazione anche lui insieme all'umanità e al cosmo. E padre Ernesto Balducci giunge a far propria la famosa implorazione del mistico medioevale Eckardt, teologo domenicano, che nel XIII-XIV secolo invitava a liberarsi dalla onnipotenza divina: «Io prego che Dio mi liberi di Dio».

Ma dopo che Dio, o la nostra razionalità, a piacere, ci ha liberato da Dio, resta il problema della distruttività assassina di Gaia. Chi è questo pulviscolo, vagante nello spazio forse infinito, che genera la vita con tanto amore e la schiaccia con così inaudita ferocia? E chi siamo noi suoi figli fatti della sua stessa pasta?

Forse la riflessione su Dio va rivolta anche alla natura. La percezione che abbiamo di Gaia è distorta, direi quasi malata. O forse meglio sarebbe dire mitica. Ci può esser di aiuto avvicinare l'esperienza di Pierre Teilard de Chardin. Gesuita, teologo con propensione al misticismo, grande scienziato, geologo e paleontologo. Professore all'Istituto Cattolico di Parigi, poi ricercatore in Cina e quindi negli Stati uniti dove è morto nel 1955. Gli fu proibito dall'autorità ecclesiastica di pubblicare gli scritti teologici e dopo la morte furono condannate le opere pubblicate postume. Attraverso la sua indagine di rigore scientifico sulla evoluzione biologica giunge alla convinzione che la Biosfera tende alla coscienza, cioè si evolve verso la Noosfera. Ma ciò non avviene perché già all'inizio c'è un ordine precostituito. L'evoluzione non segue una linea ben individuabile, si muove anche a tentoni, a strappi e a impennate inspiegabili. L'ordine è nel futuro, non nel passato: va costruito. L'Universo si dipana nella libertà e nell'autonomia. E sono precisamente questi valori di trasformazione che costituiscono il compito umano di «costruire la Terra». Nel 1919 egli esplode in un mistico «Inno alla materia»:

«Benedetta sii tu, aspra Materia ... pericolosa Materia, mare violento, indomabile passione, tu che ci divori se non t'incateniamo. ...Per raggiungerti, o Materia, bisogna che, partiti da un contatto universale con tutto ciò che, quaggiù, si muove, sentiamo via via svanire nelle nostre mani le forme particolari di tutto ciò che stringiamo, sino a rimanere alle prese con la sola essenza di tutte le consistenze e di tutte le unioni. ...Portami su, o Materia, attraverso lo sforzo, la separazione e la morte, portami dove sarà finalmente possibile abbracciare castamente 1'Universo».

E siamo al dunque finale. Oltre a guarire la percezione di Gaia, abbiamo bisogno contestualmente di guarire anche la nostra malata percezione del rapporto fra vita e morte: «portami su, o Materia, attraverso lo sforzo, la separazione, la morte». Noi percepiamo la morte come separata dalla vita, anzi contrapposta alla vita. In particolare il cristianesimo ci ha abituati se non obbligati fin da piccoli a considerare la morte come punizione per il peccato: «a causa di un solo uomo (Adamo) il peccato è entrato nel mondo e col peccato la morte e la morte si è estesa a tutti perché tutti hanno peccato» (Lettera ai Romani di Paolo). E la Chiesa indefettibile assicura la vita eterna a chi si affida al suo abbraccio. E nel mondo secolarizzato la funzione di esorcizzare la morte è assolta da altre grandi costruzioni sociali fra cui non ultime il danaro e le strutture militari. E non è forse una tale assolutizzazione della vita e la separazione fra vita e morte che rende tanto aggressivo l'«ordine» mondiale in cui viviamo? Chi s'intende di psicoanalisi potrebbe aiutarci. Lo fa ad esempio con straordinaria sensibilità e competenza Lea Melandri.

Vorrei spiegare in altro modo l'idea, ricorrendo a un film: Blade Runner di Ridley Scott. Nel 2010, l'ingegneria genetica arriva a produrre esseri umani in serie, programmati appositamente per certi compiti specifici di colonizzazione dello spazio cosmico. Questo esseri vengono chiamati «replicanti». La loro vita è programmata per un certo numero di anni. Per impedire che divengano incontrollabili, a un certo preciso momento si disintegrano. Essi non sanno quanto tempo di vita hanno; sanno però che il loro programmatore sulla Terra è a conoscenza di questo loro tempo di vita. Il programmatore conosce la data della loro morte. Si sentono condannati a morte. Alcuni di loro riescono a tornare sulla Terra clandestinamente e si mettono alla ricerca dello scienziato che ha dato loro la vita, per conoscere il loro tempo di vita e per indurre il programmatore a prolungarlo. Alcuni di essi riescono ad ottenere un tempo di vita indeterminato, e allora capiscono che la loro condizione di vita è rimasta sostanzialmente la stessa di prima ed arrivano ad amare la vita pur sapendo che è limitata a un tempo finito.

Se fossi un cineasta vorrei fare un film che partisse da questo «amare la vita pur sapendo che essa è mortale» e giungesse a una conclusione più avanzata: «amare la vita perché è mortale», o meglio, se volete, perché è finita o come usano dire i buddisti tibetani, perché è impermanente. Sono convinto che assumere in noi stessi e diffondere questa cultura della vita sia indispensabile per combattere la violenza e la guerra e per affrontare - come dice Vandana Shiva - un futuro incerto nella piena consapevolezza della nostra vulnerabilità e finitezza.

testo integrale tratto da "Il Manifesto" - 16 GENNAIO 2004