Fuori i
militari italiani, dentro le ong
Tavolo di solidarietà contro le operazioni di
falso peace-keeping e pura facciata
ORNELLA SANGIOVANNI
Una petizione popolare al
parlamento per chiedere il ritiro dei soldati italiani dall'Iraq: non
hanno intenzione di abbandonare il paese le ong del Tavolo di solidarietà
con le popolazioni dell'Iraq, ma la loro presa di distanza dall'intervento
militare è netta, come netta è la richiesta del ritiro delle truppe,
italiane e no. Le tragedia di Nassiriya «è per noi motivo di ulteriore
impegno», sottolinea Fabio Alberti, presidente di Un ponte per,
una delle organizzazioni promotrici del Tavolo - mentre traccia un primo
rendiconto di otto mesi di attività. Iniziati la scorsa primavera,
nell'immediato dopoguerra, con una presenza sul campo che oggi copre tutto
il paese, da Bassora, nel sud, a Kirkuk, nel nord. Circa 800.000 le
persone beneficiate, con interventi realizzati per oltre 5 milioni di
euro: assistenza alle fasce vulnerabili della popolazione, fornitura di
acqua potabile, ristrutturazione di scuole, avvio di operazioni di
sminamento. Finanziatori: gli enti locali italiani, l'Unione europea, l'Onu.
I risultati ottenuti - a fronte dei 40 milioni di euro che l'Italia spende
ogni mese per mantenere la propria presenza militare in Iraq - ci
rafforzano nelle nostre convinzioni, dice Alberti.
La prossima fase - spiega Cinzia Giudici del Cosv - sarà di sostegno alla
nascente società civile irachena, con progetti realizzati da ong e dalle
amministrazioni locali, della cui esecuzione le associazioni del Tavolo
saranno partner e garanti. Interventi con minore visibilità e meno appeal,
ma meno mediati, più a contatto con la gente. «E' una scelta politica»
- dice Giudici. Aiutare la società civile irachena a riaggregarsi
significa sostenere la crescita della democrazia. I soldi saranno quelli
delle sottoscrizioni private.
Non hanno sentito né sentono il bisogno di protezione militare gli
operatori del Tavolo in Iraq: la situazione nel paese è critica -
ammettono - ma dalla presenza militare loro non si sentono affatto
garantiti, anzi. «La presenza militare danneggia l'azione umanitaria
anche dal punto di vista della sicurezza degli operatori», dice Giulio
Marcon, presidente dell'Ics, sottolineando la completa disattenzione da
parte sia dei media che delle istituzioni italiane verso l'impegno delle
organizzazioni umanitarie che lavorano in Iraq. «Ci sentiamo abbandonati»:
Marcon denuncia il taglio dei fondi, e il «disarmo» dell'Italia in
materia di interventi umanitari e di cooperazione internazionale a favore
di operazioni di «pura facciata».
Una per tutti: l'ospedale da campo realizzato dalla Croce rossa italiana a
Baghdad, e trasferito di recente in una struttura sanitaria fissa. Costo
dell'operazione: oltre 10 milioni di euro per sei mesi.
A Baghdad ci sono 40 ospedali; lo stipendio di un medico iracheno è di
40-50 dollari al mese: quanti medici si sarebbero potuti pagare con la
cifra spesa?
Perché non utilizzare i fondi spesi attualmente per mantenere la presenza
militare per interventi di sostegno alla popolazione irachena attraverso
l'Onu e le ong?
Ritirare le truppe quindi: una richiesta per far rientrare l'Italia nella
legalità internazionale - ricordiamo che il governo Berlusconi non ha
aspettato neppure la risoluzione 1511 dell'Onu (approvata il 16 ottobre)
per inviare i nostri soldati in Iraq - ma anche per evitare altre vittime.
La petizione popolare lanciata l'estate scorsa è arrivata sinora a 20.000
firme, in gran parte raccolte sul sito www.tavoloiraq.org. Questo
primo gruppo sarà consegnato oggi alla presidenza della Camera , «in
corso d'opera», dicono al Tavolo. Perché la raccolta continuerà.
L'obiettivo è arrivare a 50.000 firme, per chiedere che l'Italia non
partecipi a quella che è di fatto una occupazione militare. Collaborare
oggi con le forze militari in Iraq significa essere di parte - sottolinea
Nino Sergi di Intersos - perché non si tratta di una operazione di
peacekeeping concordata con tutte le parti. Quella che è accaduta a
Nassiriya è una tragedia gravissima e abbiamo espresso il nostro
cordoglio - ribadisce Fabio Alberti - ma continuiamo a dire che bisogna
chiedersi il perché. Cambiare l'approccio potrebbe servire anche a
evitare altre tragedie.
testo integrale
tratto da "Il Manifesto" - 20 novembre 2003