LE EMERGENZE DEL
XXI SECOLO
Il coraggio di
una nuova politica
di
Mikhail Gorbaciov
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Scrivo queste note dopo un viaggio
che mi ha portato in molte città americane e mi ha permesso di
percepire da vicino i sentimenti di una parte significativa
dell’intellettualità e dell’imprenditoria degli Stati Uniti
d’America.
Ne traggo che l’inquietudine, in quel Paese, è grande, e non solo
per quanto concerne il terrorismo. Molti comprendono, anche al di là
dell’Oceano, che è oggi necessario, per quel grande Paese, come
per il resto del mondo, come per l’Europa e la Russia, come per la
Cina, riesaminare daccapo le priorità del XXI secolo.
Con lo scorrere del tempo diventa sempre più evidente che i
problemi centrali del pianeta non si possono più affrontare con i
vecchi metodi, con la vecchia politica che ha caratterizzato i tempi
della guerra fredda e che, per nostra comune sventura, non è quasi
mutata con la fine dell’esperienza sovietica, la caduta del muro
di Berlino.
La questione più acuta e drammatica - che si è aggravata invece
che ridursi nell’ultimo decennio - è quella della ormai abissale
distanza tra i più poveri e i più ricchi. Segno che le cause
strutturali e storiche dell’arretratezza si sommano all’egoismo
dei ricchi e dei potenti per creare una tremenda miscela esplosiva.
Il terrorismo viene da lì? Sicuramente anche da lì. E dunque la
lotta contro il terrorismo non si può fare senza tenere conto di ciò.
Del resto, sebbene gli Stati Uniti e i loro alleati abbiano
intrapreso azioni per combattere il terrorismo, esso non si è
affatto ridotto, si è anzi esteso in tutte le direzioni. Segno che
l’azione repressiva, anche quando è fatta nei modi giusti, non
conducendo cioè guerre contro Stati (come è avvenuto nel caso
afghano e in quello iracheno), non è sufficiente. Né la lotta
contro il terrorismo può farci dimenticare che il modello di
sviluppo di cui disponiamo, l’unico dominante, quello
capitalistico, non ci consente più di salvaguardare l’ambiente
naturale.
Sempre più insostenibili, per la natura, sono i criteri basilari
dell’attività economica. Si fanno summit internazionali, a Rio, a
Johannesburg, ma nessuno sembra preoccuparsi di dar risposta ai
problemi del governo planetario di una crisi di sviluppo ormai
ineludibile.
E dell’acqua che manca, come ci occuperemo? Ci sono già stati tre
forum mondiali ma in concreto si sta facendo ben poco. Solo
l’Europa è giunta recentemente a definire l’acqua come un bene
sociale da difendere, e ha respinto l’insensatezza delle
privatizzazioni generalizzate dei beni naturali.
L’impressione sempre più diffusa è che la politica mondiale sia
andata in tilt e che, mentre i vecchi imperi ancora non sono del
tutto usciti di scena, ecco arrivarne uno nuovo di zecca. C’è chi
pensa che, al posto di un nuovo ordine mondiale, democraticamente
condiviso tra gli Stati, occorra costruire un nuovo centro di
comando imperiale.
Si è fatta molta retorica attorno al tema del superamento delle
sovranità nazionali, soverchiate dalla globalizzazione. Il che è
in parte vero, ma abbiamo anche visto che la marginalizzazione degli
Stati nazionali, la loro subordinazione a centri sovrannazionali non
legittimati democraticamente in alcun modo (Fondo Monetario
Internazionale, Banca Mondiale, Organizzazione Mondiale del
Commercio), ha creato più problemi che progressi. Tutto ciò ha
portato a nuove tensioni e non ha risolto le antiche.
Io condivido la tesi di Giovanni Paolo II che un nuovo ordine
mondiale dev’essere più giusto e umano di quello attuale,
altrimenti non sarà un nuovo ordine mondiale. Un’economia che si
sviluppa caoticamente non è sufficiente a crearlo. Non vi è alcun
automatismo economico. E’ indispensabile l’intervento della
politica e dell’etica, che introducano giustizia e umanità, per
costruire un tale ordine.
In assenza di questi criteri noi tutti corriamo da una trappola
all’altra. L’esportazione della democrazia dell’Occidente sta
producendo in giro per il mondo un crescere della sfiducia verso la
democrazia. Cresce il numero di coloro che pensano che, per
risolvere qualche cosa, occorrano soluzioni autoritarie. Predichiamo
la libertà, ma siamo intolleranti. Combattiamo i fondamentalismi,
ma stiamo diventando sempre più fondamentalisti noi stessi, nella
pretesa che i nostri valori debbano essere obbligatoriamente
condivisi da tutti.
L’Iraq è purtroppo l’emblema di questa cecità di una parte
dell’Occidente. Quella guerra è stata un errore con conseguenze
disastrose. Purtroppo assistiamo a tentativi di prolungare
l’errore, invece che a ripararlo.
Si sta riducendo il numero di coloro che sostengono quella guerra,
ed è significativo. I tragici eventi spagnoli e le loro
ripercussioni politiche confermano questa tendenza. Affermare che ciò
significa cedere al terrorismo non è giusto e non corrisponde ai
fatti. I fatti dicono, al contrario, ormai senza possibilità di
smentita, che le ragioni che portano alla guerra erano menzognere.
Le conseguenze non possono che essere inaccettabili.
L’Amministrazione americana - e non solo - deve capire tutto
questo e trarne le dovute conseguenze, per il bene dei cittadini
americani e per quello di tutti. Non esiste una soluzione militare.
Il popolo iracheno è contro l’occupazione e sarà contro ogni
soluzione che protragga l’occupazione, inclusa una soluzione
apparente che, sotto l’egida delle Nazioni Unite, lasciasse
invariata la fisionomia del contingente militare di occupazione e
l’attuale catena di comando, interamente sotto controllo
anglo-americano.
Occorrono tempi certi per il ritiro, seppure graduale, delle truppe
statunitensi e degli Stati che hanno preso parte all’occupazione e
la loro sostituzione con un nuovo contingente militare
multinazionale, sotto la piena autorità dell’Onu, che abbia al
suo interno, in posizione di rilievo, i Paesi arabi e di religione
musulmana.
Secondo i principi definiti - all’unanimità - dalla risoluzione
1511 del Consiglio di Sicurezza, che definiva «di natura temporanea»
le soluzioni politiche create dagli occupanti, sono le Nazioni
Unite, e solo esse, ad avere il compito della ricostruzione politica
e materiale del Paese. E’ sotto la loro supervisione che gli
iracheni devono costruire una nuova Costituzione e giungere a
elezioni democratiche. Ogni altro percorso porterà alla
prosecuzione della guerra e a nuovi disastri. Il realismo impone che
queste condizioni, per essere realizzate, richiedano il consenso
degli Stati Uniti d’America. Ma, al momento, sembra che Washington
non sia disposta a fare questo passo. Il negoziato - lo sappiamo -
è in corso e ci si augura che possa produrre qualche risultato, ma
occorre mettere in guardia soprattutto i dirigenti di Washington a
non lasciarsi cullare dall’illusione di poter manovrare a lungo.
Prolungare sostanzialmente la situazione presente, in attesa dei
tempi elettorali statunitensi, effettuare qualche concessione di
facciata, che non muta i rapporti sul terreno, per poi tornare a
dirigere da soli i processi di normalizzazione della situazione
irachena, significherebbe soltanto prolungare la conta dei morti,
iracheni e stranieri. E, nel caso le Nazioni Unite dovessero farsi
coinvolgere in questa illusione, tutto ciò finirebbe per tradursi
in un nuovo colpo al loro prestigio - già scosso, non per colpa
loro, dagli eventi del Kosovo, della guerra afghana, della tragedia
palestinese e israeliana - e alla loro autorità morale e giuridica.
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testo integrale tratto da "La
Stampa" - 2 aprile 2004 |