Diario
pacifista
Non ci
aspettavamo tanti morti, anzi tantissimi fra i «loro»
di Giulietto
Chiesa
NON ci aspettavamo
tanti morti, diciamocelo con franchezza. Ci avevano detto, spiegato,
raccontato in anticipo, che lo spietato dittatore sarebbe caduto in
fretta. E che le truppe liberatrici sarebbero state accolte dal trionfo
popolare. Alcuni bombardamenti essenziali, qualche cadavere eccellente da
esporre al ludibrio mondiale, nessuna battaglia seria. Adesso contiamo i
cadaveri, ormai tanti, da una parte e dall'altra. Per la verità
tantissimi da una parte, quella dei bombardati, e molti meno dall'altra,
quella dei bombardanti. Ma, tenuto conto che ciascuno di questi ultimi
vale mille, il conto è comunque alto. E il dolore lo è altrettanto.
Anche se, chissà perché, il «loro» dolore ci viene mostrato (quando ci
viene mostrato) come una merce di scarso valore.
Non è nemmeno esteticamente bello. Di regola scomposto, volti di donne
urlanti, pugni irati alzati verso il cielo, ambienti squallidi di povertà
che fanno da contorno alla scena di una sofferenza elementare. Appunto
elementare, selvaggia, primitiva. E, per ciò stesso, per noi che
ascoltiamo la musica sinfonica e guardiamo Spielberg, quella sofferenza «vale
meno». Almeno secondo i criteri di quella casa di profumi che ha riempito
di suoi manifestoni tutti gli aeroporti del pianeta: «Perché io valgo».
Perché noi valiamo, noi abbiamo un costo assicurativo, noi abbiamo un Pil
rispettabile. E quando moriamo ci sono danni da pagare. E questa è una
sofferenza vera, oltre che esteticamente qualificata.
«Loro» invece non hanno niente di tutto questo. E, di regola, non sono
neanche belli. Ragion per cui non è possibile che soffrano come noi.
Basta guardare le fotografie dei funerali dei caduti americani. Scendono
dai giganteschi bombardieri che hanno appena sganciato le loro bombe (se
non sono gli stessi ha poca importanza) le bare coperte dalla bandiera
della patria, lente, solenni. I soldati sono in alta uniforme e si muovono
con grazia militaresca e triste.
Ai lati delle corsie rosse e nere la folla dei parenti è composta in un
suo lutto spartano e dimesso. Il dolore è filtrato dall'ordine e dalla
coreografia, poiché non si deve dare impressione di debolezza, ma solo di
una fredda e assoluta determinazione. La musica è quella delle nazioni
civili: colta cioè, perché noi siamo la civiltà, mentre i nemici sono
la barbarie. Per definizione. Noi siamo quelli che fanno la guerra
controvoglia, solo per nobili motivi.
Se tutto ciò che vediamo provoca dolore e tristezza, è soltanto perché
abbiamo compiuto il nostro dovere contro un nemico che non rispetta la
buona educazione. Un nemico che, quando riesce ad abbattere un aereo
nemico, va poi alla caccia del pilota mosso da una furia selvaggia di
rancore. Davvero incivili questi barbari.
testo integrale
tratto da "La Stampa" - 31 MARZO 2003