di
Achille Rossi
Non perdere di vista la profondità del reale e recuperare il centro
della vita
Voglio cominciare citando un sociologo
italiano, Sabino Acquaviva, che già negli anni Settanta scriveva: "Come
siamo consumati da questa civiltà dei consumi!" . Io penso che
anche oggi la sua osservazione sia non solo vera ma ancora più
disperante. Siamo immersi in una società del superfluo, dell'abbondanza,
del consumo che rende tutto uguale e ci impedisce di cogliere
l'essenziale.
Vorrei provare a localizzare questo essenziale perché non rimanga una
parola vuota. L'essenziale significa, a mio parere, accogliere il divino,
coltivare l'umano e rispettare la dimensione cosmica. Senza apertura alla
dimensione divina c'è asfissia, non si respira, l'uomo ripiomba su se
stesso perché manca la polarità radicale che serve da punto di
riferimento e nella vita umana compare la disperazione. Kierkegaard - che
per me è davvero una grande fonte di ispirazione ha scritto: "Se non
c'è una tensione infinita verso l'infinito l'uomo si dispera nel
finito".
Senza l'accoglienza dell'umano si sprofonda nel delirio del Solo, con la
"s" maiuscola, in cui la modernità qualche volta si è
impantanata; e senza rispetto della dimensione cosmica i rapporti tra le
persone diventano meccanici e alla fine violenti.
Uno stile di vita che punti all'essenziale comincia dai gesti della
quotidianità e soprattutto ha un rapporto con il corpo. Vorrei mostrarlo
raccontando un episodio della tradizione zen: c'è un ashram nel quale
vive un maestro celebre per la sua saggezza, e la gente va al monastero
per consigliarsi con lui. Arriva un occidentale che chiede a uno dei
discepoli: Che cosa fa di speciale il vostro maestro?" e questi gli
risponde: "non fa niente di speciale, quando mangia mangia, quando
parla parla, quando riposa riposa, quando cammina cammina".
L'occidentale replica: "ma questo lo fanno tutti".
"Provaci, vedrai quanto è difficile" ribatte il monaco. In
effetti questi verbi che il monaco elenca possono essere declinati non
come noi facciamo normalmente, ma in un modo diverso che richiede un certo
atteggiamento di fondo.
Comincio dal gesto più immediato: mangiare e bere. Ci sono tanti modi di
mangiare: c'è il mangiare della civiltà dei consumi che potremmo
qualificare come "la grande abbuffata". A me colpisce sempre il
modo di mangiare dei nostri ragazzi perché vedo quale dose di aggressività
e persino di violenza scarichino sul cibo e come lo considerino proprietà
loro. C'è il mangiare in altri contesti: ricordo l'impressione che mi
fece, la prima volta che andai in India, il mangiare in un ashram
cristiano: ci si siede per terra e il cibo viene servito su due foglie di
banano. Non è self-service, è un dono, si può richiedere ancora, ma
sono gli altri a donartelo. E' un modo di mangiare diverso che sottende
un'altra antropologia. Io credo che nella nostra società il mangiare
abbia perduto questo carattere profondo, oserei dire sacro. E la riprova
è che i disturbi psicologici oggi si concentrano sul cibo; mi riferisco
in particolare all'anoressia e alla bulimia. L'anoressia è un rifiuto del
cibo che maschera il rifiuto dell'altro. Ed è un rifiuto radicale:
ricordo una ragazzina che mi diceva "non posso fare la comunione
perché anche comunicarsi è mangiare". Al rovescio l'ossessiva
assunzione di cibo simboleggia, nella distruzione degli alimenti, la
distruzione dell'altro. Non si tratta però di atteggiamenti puramente
individuali. Mi chiedo, guardando la nostra società, se essa non faccia
altro che vomitare chi è diverso, come l'anoressico vomita il cibo che ha
assunto, perché non può accettare l'altro: noi tendenzialmente, come
società, vomitiamo i diversi e, d'altra parte, divoriamo il cosmo e le
ricchezze dei poveri in una specie di cieca bulimia. Vomitare, divorare:
due verbi significativi che hanno a che fare con il corpo.
Credo che dovremmo reimparare a mangiare come gesto sacro, nel quale non
si incorporano soltanto proteine, carboidrati, vitamine, ma soprattutto la
relazione. Anche l'Eucarestia è un altro modo di mangiare, in cui si
assume l'ispirazione di Cristo. E' possibile mangiare in modo diverso e
instaurare un rapporto di convivialità?
Prendo un altro verbo significativo: respirare. Noi viviamo l'affanno di
adeguarci a ritmi che non sono naturali. Siamo oppressi da mille impegni e
mille preoccupazioni, siamo stressati dal nostro stile di vita. Dovremmo
imparare l'arte di respirare profondamente e con libertà. Nel nostro
doposcuola per venti anni abbiamo ospitato dei ragazzi psicotici, e quello
che mi colpiva in loro era l'ansia, l'affanno del respiro che era la
manifestazione fisica della loro psicosi. Tutto lo yoga inizia con
l'imparare l'arte del respiro: se andate in Oriente vi fanno sedere in
riva all'oceano, vi fanno chiudere prima una narice poi l'altra, e poi vi
dicono "adesso impara a respirare perché non puoi imparare a pregare
se non impari a respirare. Infatti respiri non solo il cosmo, ma respiri
il divino". E' interessante capire che respirare non è soltanto un
atto fisiologico, è qualcosa di più, forse qualcosa che ha a che fare
con il "non preoccupatevi di quello che mangerete, né di quello che
berrete perché il Padre vostro lo sa". Respirare è il tentativo di
vivere con calma l'unica ricchezza che abbiamo, il nostro presente, quello
che stiamo vivendo in ogni momento.
C'è un altro verbo squalificato, il parlare. Come ricorda Heidegger,
molto parlare è chiacchiera o mera trasmissione di concetti e di
contenuti, come avviene nell'insegnamento; parlare invece è
essenzialmente relazione. Ogni parola vera è una invocazione nei
confronti dell'altro, è una richiesta di attenzione. Noi oggi
comunichiamo molto con gli strumenti, ma abbiamo paura della relazione
perché è troppo impegnativa, oppure comunichiamo dei concetti ma
evitiamo la relazione. I nostri ragazzi, che hanno il dito indice sempre
puntato sul telefonino, in realtà stanno realizzando una comunicazione
povera, perché la comunicazione impone sempre la relazione, mette a
confronto col volto dell'altro e loro, come noi tutti forse, non riescono
a sostenere il volto perché invita alla responsabilità. Io ho un
discorso aperto con i miei ragazzini adolescenti ai quali rivolgo spesso
questo rimprovero: "Voi non ascoltate niente" e loro mi
rispondono "come non ascolto? Ti ripeto tutto quello che hai
detto!". In realtà non è questo l'ascolto, ascoltare è accogliere
la parola come invocazione. Dovremmo fare il tentativo profondo di
imparare a parlare e ad ascoltare.
Un altro verbo ancora, diventato ormai sconosciuto: camminare. In effetti
noi ci spostiamo, ma non camminiamo. Camminare è seguire il ritmo proprio
e stare in mezzo alle cose, avere tempo di vederle, di assaporarle.
L'esperienza di stare in un luogo: noi spesso non stiamo in nessun luogo,
perché non c'è rapporto con il sentiero che percorriamo, con le piante,
con l'orizzonte e soprattutto non abbiamo tempo di vedere nessuno. E'
simpatica un'espressione degli africani che ho sentito riferire da
Panikkar: "Gli europei sono le persone che non si salutano quando si
incontrano". E la maggior parte delle volte nemmeno si incontrano. Se
ci pensate anche le nostre strade ed autostrade sono "vie di
incomunicazione". Ecco perché chi fa l'esperienza del pellegrinaggio
qualche volta rimane sconvolto: il pellegrinaggio è poter camminare,
poter incontrare delle persone, essere in un luogo, avere tempo.
Penso a un altro verbo squalificato: riposare. La nostra è una civiltà
in cui il riposare ha connotazioni negative perché ha privilegiato il
lavoro, il produrre. Riposare è sinonimo di ozio, di inattività, che
ogni tanto, invece, bisognerebbe accettare perché ci libererebbe dalla
mania di essere tutto e di avere tutto che, a dire di Freud, sono le
tensioni che portano la persona ad autodistruggersi. Certo è necessario
agire, l'uomo si esprime nell'azione, ma l'attività essenziale nasce dal
silenzio e non dalla moltiplicazione degli impegni.
Per declinare questi verbi nel modo che ho detto è necessario un
atteggiamento di fondo che chiamerei l'atteggiamento contemplativo, che
significa non perdere mai di vista la profondità del reale e recuperare
sempre il centro della vita.
L'atteggiamento contemplativo ci abilita a vivere nel presente perché lì
è dato tutto, il mistero, gli altri, il mondo. Ci guarisce da una
esasperata ricerca del futuro, di quello che non c'è. Ci si proietta
sempre in avanti per avere di più, per arrivare prima, per salire più in
alto e così si cade nella frenesia.
L'atteggiamento contemplativo ci guarisce dal finalismo eccessivo. Certo
che i fini esistono, ma diventano negativi quando si trasformano in
programmazione eccessiva, controllo eccessivo. Raramente l'azione nasce
dalla profondità, spesso è frutto delle mete esteriori che ci siamo
imposti e questa tensione finalistica ci fa perdere la disponibilità ad
accogliere, ad essere penetrati dalla realtà che è la nostra unica
ricchezza. Questo impoverimento interiore porta alla ricerca della
grandezza, del successo, come mostra il mondo dei media.
L'atteggiamento contemplativo ci porta a operare delle scelte. Se la
sobrietà ha il significato di ritorno all'essenziale certo è necessario
fare delle scelte e soprattutto dei recuperi: il recupero del silenzio,
del simbolismo, della convivialità, della politica.
testo
integrale tratto dalla rivista Ore Undici - febbraio 2004
sito
www.oreundici.org