Sei corpi di israeliani preda di Hamas

Cadaveri come ostaggio abisso nell'abisso

di Giuseppe Anzani

Sono i giorni dell'orrore, in cui ci inseguono senza fine le foto di corpi torturati e le immagini interiori di anime umane violentate da altre anime umane fatte bestie, che fanno loro assaggiare l'inferno. Che cosa si spegne, dentro lo sguardo aguzzino che non vede più il volto, il volto dell'altro uomo simile a sé, e lo vede "muso" e lo guinzaglia, e lo possiede e lo strazia? È l'Uomo che muore dentro l'uomo.
Ma c'è un inferno dei vivi che scavalca persino i cancelli della morte, quando i corpi inanimati giacciono ormai sulla terra. E' come se l'odio fosse un fuoco che la preda consumata non sazia, non estingue. I resti possono ancora ricevere scempio, da cosa morta che sono, e l'oltraggio sprofondare nei territori dello spirito, quasi empia incursione nell'invisibile mondo dell'oltre a lasciarvi l'ultima bestemmia. Tremila anni fa, il mito greco raffigurò questa sorta di sconfinamento della ferocia nell'insepolto corpo di Ettore trascinato dal carro di Achille ("or cani e corvi te strazieranno turpemente"), e nel vecchio padre inginocchiato a riscattarne la sepoltura, "baciando la mano omicida".
Ieri a Gaza gli uomini di Hamas hanno raccolto i corpi dilaniati di sei soldati israeliani saltati su una mina con il loro blindato, durante una furiosa battaglia. Annota il cronista che "fonti militari israeliane confermano l'estrema difficoltà di recuperarli". Quei corpi sono dunque divenuti una preda. E sono stati portati in giro per le strade, in un sacco, arti spezzati, brandelli di carne e di ossa; li hanno esposti come fossero un macabro trionfo.
Sul piano dei simboli, questa crudeltà che ci ferma il pensiero, mentre il cuore annega nell'orrore, può avere più sensi. In primo luogo l'oltraggio ai morti è tortura dei vivi. Ogni uomo sulla terra ha "i suoi morti", e li ama; ne affida le spoglie alla tomba, e copre le tombe di fiori. Il legame spezzato dalla morte si riannoda nella memoria e nel doglio, e diviene un dialogo interiore, a volte più intenso che in vi ta. I riti di sepoltura, in tutte le civiltà della storia, sono il segno sacro dell'approdo a un destino che ci accoglie e che ci ricongiungerà, nella pace. I resti di una persona cara, predati da altri, sono simbolicamente una frattura del legame che strazia senza fine.
In secondo luogo, per ciò che allaccia pur nel dolore l'evento della morte dell'uomo alla figura della sua pace, lo scempio dei morti vuol dire negare loro il riposo, l'eterno riposo che la preghiera di ogni fede invoca, simbolicamente negare loro la pace della morte, tenerne "vivi" e posseduti i resti per sfogarvi l'odio, prolungarvi sopra la guerra. Seppure non sopraggiunga forse, in terzo luogo, un macabro calcolo su quanto di "prezioso" quei resti valgono, per i padri e le madri che li attendono ("lasciate socchiusa la porta, che egli verrà…") e pregano. Così anche un cadavere in pezzi può diventare un ostaggio, da barattare.
Sentiamo scendere in cuore un gelo, un infinito silenzio. Sentiamo avvicinarsi altre ore di lutto, di sangue, di incrociate vendette. Quando sarà spezzata la catena che lega l'abisso all'abisso? Non diciamo, non diciamo mai più che "la guerra fa di queste cose", come fosse la guerra a fare gli uomini e non gli uomini a generare nelle viscere quella follia. Dov'è l'Onu? Dov'è l'Europa?
O forse, dopo lo scempio dei morti, dov'è l'Uomo?

testo integrale tratto da "Avvenire" - 12 maggio 2004