IDEE
Il gioco
pedagogico può essere sbilanciato: può sviluppare l’attitudine al
successo nella soluzione dei problemi, non potenzia però la sfera emotiva
anche se crea bambini «geniali»
Perché i
bambini devono giocare
di
Vittorino Andreoli
Si
sottolinea che talvolta i padri giocano poco con i figli o che le madri
fanno del gioco un veicolo educativo. Ma il vero gioco è quello tra pari,
in primo luogo tra fratelli, che poi si allarga ai coetanei. Il ruolo dei
genitori è quello dell’autorità, della pedagogia e dell’ascolto, si
esercita sul piano della comunicazione, come narrare storie o favole
Ma non bisogna ripiegare sulla tv, che ci fa spettatori, non partecipi e
non esiste attività ludica senza un ruolo attivo. L’effetto sui bambini
è quello di tenerli occupati,
ma non occupati a giocare
Di
Vittorino Andreoli
Si parla
spesso dei rapporti tra padri e figli o madri e figli e, nell'analisi
delle problematiche come nella ricerca di soluzioni, non mancano consigli
che hanno come oggetto il gioco. Per esempio, si sottolinea che talvolta i
padri giocano poco con i figli o che le madri pur se presenti, fanno del
gioco uno strumento educativo, un veicolo per impartire educazione e buone
maniere.
Il vero gioco è quello tra pari, in primo luogo tra i fratelli, che poi
si allarga ai coetanei. Un gioco che sfugge al controllo della madre, e si
fa magari di nascosto, lontano dagli adulti. Insomma, libero e
trasgressivo, dotato del fascino dell'avventura. Proprio con i pari il
gioco esprime tutte le sue valenze di strumento esplorativo, per
sperimentare il sensibile, scoprire il mondo. Un grande maestro insomma,
dal quale si apprende attraverso la libertà di compiere errori. Si sente
ripetere anche che i giochi devono essere intelligenti. Nella migliore
delle ipotesi hanno un fine didattico. Nella peggiore seguono la moda
dominante, che, attualmente, è quella del successo. In entrambi i casi
sostituiscono, o forniscono un appoggio, al ruolo pedagogico della madre.
Pensiamo un attimo ai bambini superdotati. Sono un fenomeno che richiama
l'attenzione dei mass-media, per loro si sono istituite scuole
"speciali". Ma capita che talvolta di loro si debba occupare lo
psichiatra e scopre che si tratta spesso di bambini ai quali, "per
gioco", la madre ha iniziato ad insegnare a tre anni le lettere
dell'alfabeto, poi i numeri, quindi a leggere e fare operazioni. Oppure
che a quattro anni hanno ricevuto in regalo il primo computer. Insomma,
nella maggior parte dei casi, sono queste le vere cause della
"genialità" dei bambini. Ma quando entrano in una classe di
coetanei si crea un gap, uno sfasamento tra il bambino superdotato e i
compagni che lo vedono come una sorta di mostro. Scattano allora
meccanismi di difesa, i rapporti si fanno difficili, il bambino avvertito
come "diverso" non riesce a creare relazioni sociali. D'un
tratto, poi, appare svogliato, non si applica più a nulla, né segue le
lezioni in classe. Ciò che spiega la maestra per lui è già acquisito.
Ibambini-prodigio si contano sulle dita di una mano. Il resto è frutto
della pedagogia di madri, provenienti da famiglie della piccola e media
borghesia che, nella maggior parte dei casi, hanno una carica di
affermazione sociale. Si tratta, però, di un gioco molto pericoloso,
perché questi bambini, che ai test di intelligenza superano quota cento,
a quello dell'affettività precipitano a trenta. Il gioco pedagogico è -
altri termini - sbilanciante: sviluppa l'attitudine al successo nella
soluzione dei problemi, ma non potenzia affatto la sfera emotiva. Non
permette di instaurare quei rapporti relazionali con l'oggetto ludico che
hanno prevalentemente i colori dell'affettività. Una bambola la si può
odiare o amare, la si può abbracciare per cantarle una ninna nanna oppure
sbatterla a terra. Con il computer non accade. Non si provano sentimenti
verso una macchina.
Il vero dramma dei bambini è l'estinzione del gioco tra pari. Oggi la
famiglia è sempre più spesso composta da tre persone: padre, madre e un
figlio. La scomparsa dei fratelli è il vero trauma dei bambini del Terzo
millennio, aggravato dal clima anonimo delle relazioni. Certamente, le
possibilità di relazione sociale dei bambini appaiono maggiori e precoci.
Tuttavia si svolgono in ambienti con forte condizionamento dove prevale il
gioco pedagogico: dall'asilo ai corsi post scolastici, un tempo tutto
impegnato tra scuole di danza, palestre, nuoto, canto o chitarra. I
bambini vedono nei maestri nuovi genitori ai quali bisogna obbedire e che
si attendono da loro un risultato preciso.
Insomma, stiamo rischiando di trasformare il gioco in un'occupazione,
affinché i bambini disturbino il meno possibile gli adulti. Ecco, allora,
irrompere nel mondo infantile la televisione straripante, le sfide
solitarie al videogioco, oppu re le attività ludiche sociali ma
ossessivamente dirette. Non è un caso che rimanga intatto il fascino
esercitato dai ragazzi della via Pal, cioè tra pari che si uniscono in un
mondo autonomo dagli adulti, con leggi proprie, la forza della
trasgressione e anche una inevitabile carica di violenza.
Padri e figli non sono fatti per giocare insieme. Nella storia della
famiglia il genitore ha rappresentato l'autorità, separata e da
ossequiare, cui ci si rivolgeva con il "voi". Nella vasta
letteratura che da Turgenev in poi ha affrontato il nodo di questo
rapporto, la nota prevalente è quella del contrasto generazionale. Il
problema d'un significato ludico di questa relazione è acquisizione
recente. L'unico ruolo che i padri possono avere nel gioco è quello di
narratori di storie o di favole.
Un rapporto, quindi, che si situa nell'ambito della comunicazione.
Tuttavia i padri attuali stanno soccombendo sotto l'incalzare della
concorrenza televisiva, di videocassette e dvd. Non c'è che dire: tra la
storia di Cappuccetto Rosso raccontata da papà e l'ultimo cartone animato
firmato Walt Disney anch'io confesso di preferire il secondo. Il vero nodo
nel rapporto tra genitore e figli, però, non è il gioco, ma la
comunicazione. Nelle famiglie si è ridotto progressivamente il tempo
dedicato ad ascoltare. La casa è piena di rumori e di silenzi che
ottengono lo stesso risultato: la morte del dialogo. Eppure anche un
bambino di pochi anni ha un vissuto importante, fatto di sensazioni,
impressioni, delusioni, paure e incertezze che deve poter esprimere.
Padri e madri, in questo senso, mantengono un'importanza fondamentale.
Spegnere la televisione, dunque, non significa che i genitori si mettano a
giocare con le costruzioni o la trottola. Piuttosto devono sapere
ascoltare, agevolare la condivisione delle emozioni. Confesso di non
essere ottimista su questo punto: vedo la famiglia affondare sempre più
nell'ambivalenza, nella precarietà dei rapporti e nella dissoluzione
della stabili tà affettiva. L'ambiguità è la grande malattia e di
questa i bambini si nutrono. Il terreno della relazione, poi, si fa ancor
più sdrucciolevole per la confusione tra l'ambito del gioco e quello
dell'ascolto. Come se si puntasse il dito contro la mancanza del primo,
mentre non è di quello che i bambini hanno bisogno nel rapporto con i
genitori.
Solo sciogliendo questa confusione, forse, si riuscirà a restituire al
gioco il suo significato e la sua importanza, riconducendolo all'area
della socialità con i coetanei, ricca d'inventiva, fantasia e, come si è
sottolineato, di trasgressione. Così il gioco potrà funzionare nella
costruzione della personalità, mostrando che l'errore conferma la regola,
creando un rapporto tra realtà e immaginazione, e anche giungendo a
rappresentare un'area di compensazione tra i due mondi.
Insomma il gioco deve diventare esclusivo dei bambini, in inter relazione
tra loro. La presenza dell'adulto e dell'educatore semmai si deve fare
invisibile, ma non può mai entrare nel medesimo ruolo e farsi anch'egli
bambino. Rimarrà un disturbatore del gioco e lo guiderà verso uno scopo,
rendendolo quindi strumentale ai fini dell'educazione programmata. E in
questa concezione, ancora minore è il senso dell'esperienza televisiva.
Quello cui si assiste davanti al televisore non c'entra nulla con il gioco
che, appunto, è utile per situare e differenziare, oltre che compenetrare
tra loro gli spazi del desiderato e del concreto. Ma si tratta di
un'interazione in cui il soggetto deve avere un ruolo attivo. L'homo
televisivus è passivo: un fruitore immobile di immagini prodotte da altri
e destinate ad imprimersi nella sua testa. Lo spettatore è mercificato in
funzione di ciò che gli si vuole imporre.
Il televisore continua a proporre spazi di giochi per adulti (quiz), e per
bambini, ma rimane anche con questa veste passivo e non riesce certo a
"tirare dentro" il gioco i bambini spettatori. Il televisore
rimane uno strumento che ci fa spettatori, non parte cipi e non esiste
gioco senza assumere un ruolo attivo.
L'effetto sui bambini è dunque fuori del gioco, li può tenere occupati,
ma non occupati a giocare. Il rischio piuttosto è che se il confine tra
reale e immaginato si sfuoca fino a dissolversi, come è la tendenza
indotta dall'eccessiva esposizione ai programmi televisivi, il risultato
non può che essere terribile: perché quell'ingorgo di immagini stipato
nella fantasia sfugge allo spazio entro cui è confinato per irrompere nel
quotidiano, nel concreto, e in particolare nel mondo infantile che finirà
per imitare gesti senza la consapevolezza del gesto.
testo integrale tratto da
"Avvenire" - 2 dicembre 2003
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