"Tempo Perso - Alla ricerca di senso nel quotidiano"

Benedetto XVI e san Bernardo di Chiaravalle

Non lasciamo che l'attivismo addormenti l'anima

di Pierangelo Sequeri

Sorridendo, incide la parola di Bernardo di Chiaravalle che papa Benedetto estrapola con soave astuzia dal suo immenso lascito spirituale. «Ecco dove ti possono trascinare queste maledette occupazioni, se continui a perderti in esse... nulla lasciando di te a te stesso». Non sono le occupazioni il punto, né il lavoro, le incombenze o la robotica. Si tratta di ben altro. Si tratta dell'ormai innominabile principio della sapienza, di Dio e dell'anima, cioè. È quando scopri di esserti ridotto all'insieme delle tue occupazioni, e non ti trovi più l'anima, né un cielo in cui la terra riprende dimensione e destinazione: è allora che ti sei perso. Letteralmente. Sempre che tu te ne accorga, poi. Perché quando sei a quello stadio di assottigliamento dell'anima, l'anima potrebbe essere già plastificata, semplice, inerte involucro delle cose da fare, dei compiti da svolgere, degli obiettivi da raggiungere. E tu non te ne accorgi neppure più. Manca l'organo della sensibilità spirituale, cioè umana. La felice interazione fra le parti affettive e quelle intelligenti dell'uomo è una specialità dell'anima: l'ossessione delle incombenze la inaridisce, rendendoci al tempo stesso ottusi e insensibili. La "durezza del cuore" segue infallibilmente, insieme con "lo smarrimento dell'intelligenza". Il danno entra direttamente in vena, irradiandosi sul contesto. Avvelena anche noi, in un modo o nell'altro. "Sofferenza dello spirito" e dispersione "della grazia" non sono forse il principio più vistoso del nostro enigmatico male di vivere, dell'implacabile inaridimento dei nostri rapporti? Più ci diamo da fare e più questi sintomi ci avviluppano, come in una bolla di plastica. L'ossessione del fare si precipita a colmare il vuoto, finendo però paradossalmente per allargarlo. Il Papa - soave e pungente minimalismo delle letture veramente sapienziali, cui basta una coloritura - ci mette del suo. Non è solo la puntualizzazione del fatto che l'esortazione vale per ogni genere di occupazioni "fo ssero pure quelle inerenti al governo della Chiesa". Sacrosanta. Né si tratta semplicemente del richiamo all'ossessione del lavoro produttivo o alla disumanizzazione tecnologica. Solo implicita. Dovessi spingere a fondo la provocazione, comincerei piuttosto da un inciso che viene prima: «Per lui (Bernardo) la forza più grande della vita spirituale è l'amore». La mediocre cura dell'anima che noi rischiamo su larga scala - dentro come fuori della religione, appunto - inaridisce l'espansione delle sue potenzialità migliori, che sono l'affinamento delle relazioni e la modulazione degli affetti. I "prodotti" più fini e più ricchi dell'umano stanno nei paraggi delle opere dell'arte e delle contemplazioni del sacro. Nei pressi dell'io-tu-noi dello spirito, la cui densità spirituale va tenuta al riparo dal mansionario delle occupazioni, delle professionalità, delle ottimizzazioni, del governo angoscioso e angosciante del tempo (che ormai affligge persino quello che - sfiorando il ridicolo - si chiama "libero"). Bisogna avere un vasto cielo sopra, sotto, e tutt'intorno, per trarne la cultura che è necessaria. Esiste forse un rapporto diretto e verificabile fra l'immeschinimento della qualità spirituale e i modi dell'amore di una civiltà?

 testo integrale pubblicato da  "Avvenire" -  22 agosto 2006