Ascoltiamo lo straniero,

smetterà di essere estraneo

di Enzo Bianchi

Nella nostra società “occidentale”, in seguito dapprima all'urbanizzazione massiccia, poi alla nascita dei quartieri residenziali periferici e alla ricerca di ville e villette monofamiliari nel verde, abbiamo assistito a un progressivo “isolamento” delle nostre case, ormai lontane parenti sia delle dimore rurali aperte sui campi e alla sosta dei viandanti, sia delle abitazioni di paese affacciate su piazze e vie di convergenza e di comunicazione, sia dei condomini popolari dove l'affollamento andava di pari passo con una spontanea solidarietà. Oggi la dimora ideale pare essere una proprietà ben delimitata da cinte, muri, siepi, cancelli, protetta da sguardi indiscreti, difesa da porte blindate, allarmi e congegni elettronici.

In un momento in cui la riflessione sulle modalità e la qualità dell'accoglienza da riservare agli stranieri che giungono tra di noi si fa sempre più urgente, ci dovremmo interrogare su come sia possibile che una nazione e una società sviluppino prassi di ospitalità e di inserimento del diverso nel proprio tessuto culturale, se i singoli – persone e nuclei familiari – non sono più capaci, come invece lo erano in una società più “arretrata”, di aprire concretamente la porta della propria casa al forestiero che bussa e chiede magari solo di sedersi a tavola per condividere un semplice pasto.

Non possiamo infatti dimenticare che le case stesse appartengono al nostro “linguaggio”, che anch'esse dicono la nostra disponibilità o meno all’ospitalità e al dialogo. Non si tratta di rinunciare ad avere un luogo in cui poter vivere un certo silenzio, una dimensione raccolta, singola o familiare che sia (“metti una siepe tra te e il vicino di casa –  diceva la sapienza antica – se vuoi vivere bene con lui”), ma la qualità della nostra vita sociale dipende anche dalla nostra capacità di non trasformare questa custodia dell'intimità in un'ossessione offensiva degli altri o in una barriera invalicabile che imprigiona per primo colui che l'ha costruita. È ancora una volta il difficile eppure fecondo equilibrio tra alterità e identità a messere in gioco in quella che potrebbe sembrare una semplice questione architettonica o urbanistica. D'altronde chi non si rende conto che oggi la ricerca della sicurezza va di pari passo con la perdita della tranquillità? Facciamo di tutto, e chiediamo che lo stato tutto predisponga per la nostra sicurezza, ma ci sentiamo e siamo sempre meno tranquilli, perché la salvaguardia a ogni costo di uno spazio “nostro” non porta automaticamente con sé la serenità nell'abitarlo, anzi, sovente si rivela un ulteriore fattore ansiogeno.

Ed è lì, sulla soglia, che avviene il primo gesto di comunicazione: il saluto. Non qualcosa di convenzionale, ma un segno che radicato in una determinata cultura, sia capace di esprimere all’ospite che egli è il benvenuto e che la sua venuta desta gioia. Sappiamo per esperienza che non sempre questo atteggiamento nasce spontaneo: l'estemporaneità dell'arrivo, l'abitudine o la diffidenza, oppure l'aspetto e il comportamento del nuovo arrivato rischiano sovente di indisporci verso la “novità”. Ma non dimentichiamo che si sceglie di ospitare chi sopraggiunge prima ancora di conoscerlo, prima di valutarlo, prima di discernere perché è venuto! La sua presenza è comunque e sempre “occasione”, tempo favorevole, opportunità per vivere il mistero fecondo dell'accoglienza, del riconoscerci capaci di accogliere e della radice di questa capacità: l'essere stati un giorno a nostra volta “accolti”, accettati per il fatto stesso di essere venuti all'esistenza.

            E il saluto di benvenuto introduce l'ospite non solo nella casa, ma nello spazio privilegiato dell'accoglienza: l'ascolto. Si tratta di ascoltare innanzitutto la “presenza” dell’altro, prima ancora delle sue parole, e cercare di percepire qual è il suo bisogno. A volte chi è ospitato, soprattutto se straniero, fatica a parlare, resta come incapace di esprimersi, mostra di avere un altro linguaggio. Ascoltarlo, allora, è compito primario ed essenziale. Si tratta di ascoltare quello che l’ospite vuole comunicare, e l'ascolto autentico ha sempre una dimensione di obbedienza, quasi di sottomissione; non si può avviare un dialogo assalendo subito di domande il nuovo arrivato, non possiamo essere disponibili all’incontro solo se avviene secondo i nostri schemi e desideri. Allora, per ascoltare veramente, è necessario far cessare dentro di sé ogni parola precedentemente depositatasi, far tacere i rumori interiori, creare uno spazio di silenzio in cui la parola dell'altro possa risuonare con chiarezza.

È nell'ascolto che ci si confronta anche con la paura, sentimento che non va rimosso, bensì affrontato: non serve a nulla, infatti, negare la paura; si tratta, invece, di leggerla, di sottoporla a discernimento, unica condizione per sperare di vincerla razionalmente. La diversità tra l'ospitante e l'ospitato è reale, e all’incontro tra i due si giunge non sminuendola, ma accogliendola come realtà che interpella, pone domande cui si è chiamati a dare risposta, proprio nel confronto tra la propria identità e quella dell’ospite sconosciuto. Lo straniero cessa di essere “estraneo” quando lo ascoltiamo, nella sua irriducibile diversità, ma anche nella sua umanità a noi comune. Si potrebbe dire che entrambi gli “ospiti” (non a caso in molte lingue il termine indica sia il soggetto “attivo” che quello “passivo” dell'ospitalità) devono innanzitutto mostrare la propria condizione umana basilare, ascoltarla, in modo che si apra la via della conoscenza reciproca e del dialogo.

Ora, ascoltare non è mai atteggiamento passivo: l’ascolto è attenzione e volontà di una presenza che accoglie, e come tale abbisogna di molte energie e di grande forza di volontà. Ascoltare è far tacere se stessi per dare peso, fiducia alla parola dell’altro. L’altro non lo si ascolta mai invano, ma occorre lasciarsi incontrare da lui: ascoltare è ospitare l’altro dentro di noi, ritrarsi per lasciare campo libero anche all'altro. Un ascolto autentico richiede quindi che si rinunci ai pregiudizi, e ognuno ne possiede di fronte a ciò e a chi è sconosciuto. Purtroppo, una tentazione costante, forse accentuatasi in questi ultimi tempi di migrazioni accelerate, è quella di giudicare l’ospite – che è una persona sconosciuta nel suo carattere e nelle sue modalità di espressione – sulla base di tipizzazioni fondate su criteri di giudizio popolari, ereditati da un passato anche remoto, conseguenze di una memoria collettiva non ancora purificata.

Occorre invece far tacere questo tipo di “lettura” dell'altro, sospendere il giudizio e impiegare tutte le energie, non solo quelle intellettuali, per ascoltare l’ospite. È lui che deve dire chi è, narrando se stesso, svelando quello che intende svelare, custodendo quello che ritiene prematuro far conoscere: noi non dobbiamo definirlo a partire da paradigmi e convinzioni della nostra fede, della nostra cultura, della nostra visione politica. Davvero, ascoltare non è semplicemente un atteggiamento di orecchi, ma anche e soprattutto un atteggiamento interiore.

Un'ospitalità di questo tipo – antica quanto il mondo, specialmente nelle società nomadiche o contadine – può sembrare oggi un'utopia: tutto nelle nostre leggi, nei nostri costumi, nella nostra gestione del tempo, dello spazio e della proprietà sembra andare nella direzione opposta. Eppure, se saremo capaci di praticarla, a livello individuale e collettivo, ne riceveremo un dono inatteso: quasi inavvertitamente finiremo per scoprire che facendo spazio all'altro nella nostra casa e nel nostro mondo interiore, la sua presenza non ci sottrarrà spazio vitale, ma allargherà le nostre stanze e i nostri orizzonti, così come la sua partenza non lascerà un vuoto, ma dilaterà il nostro respiro fino ad abbracciare il mondo intero.

testo integrale tratto da "La Stampa" - 18 settembre 2005