Frenano
lo sviluppo E cresce l'export Ue
Uno studio dell'Istituto per la ricerca sulla pace di Stoccolma:
l'Unione
ha superato anche gli Stati Uniti
Da
Parigi Daniele Zappalà
Nel mercato mondiale degli
armamenti, c'è un "gigante" che cresce: l'Unione europea. E
l'anno scorso, per la prima volta nella storia, il giro d'affari dei Paesi
Ue nel settore ha clamorosamente superato quello degli Stati Uniti. A
rivelarlo è uno studio del Sipri, l'Istituto internazionale di ricerca
sulla pace di Stoccolma, in cui risulta confermata nel ruolo di capolista
la Russia. Quest'ultima, con oltre il 37% del mercato, è tornata nel 2003
ai livelli di esportazione dell'epoca sovietica, quando ad essere
direttamente rifornito dalle industrie belliche agli ordini di Mosca era
un intero blocco di Paesi satelliti. Ma al secondo posto, non c'è più
l'altra superpotenza della guerra fredda. Gli Stati Uniti, col 23,5% del
giro d'affari mondiale, sono stati superati proprio dai Paesi membri della
Ue, detentori ormai di oltre un quarto (25,2%) del mercato: un volume di
esportazioni corrispondente a 4,7 miliardi di dollari.
A guidare il plotone europeo, con oltre l'80% del giro d'affari
continentale, sono Gran Bretagna, Francia e Germania, affermatesi negli
ultimi anni soprattutto nel mercato degli armamenti convenzionali
"pesanti". Grazie a colossi come BAE Systems (britannico),
Thales (francese) e Eads (a prevalenza franco-tedesca), la Ue ha raggiunto
ormai in questo comparto specifico una posizione di primo piano. Nella
"top ten" assoluta delle imprese, compare al nono posto anche
l'italiana Finmeccanica, con un fatturato di 3,9 miliardi. Nonostante a
livello politico l'Europa della difesa resti un progetto ancora vago,
l'industria bellica del vecchio continente si mostra competitiva.
Se "a monte" della catena, l'export di armamenti continua a
rappresentare una quota rilevante del Pil dei Paesi più industrializzati,
meno edificanti restano gli scenari "a valle". Laddove le armi
sono soprattutto impiegate, la loro circolazione continua ad associarsi
non solo a situazioni di strazio quotidiano, ma anche alla miseria. A
focalizzare quest'anno proprio il n esso fra povertà e detenzione di
stock d'armi è un altro rapporto: quello che, sotto la supervisione delle
Nazioni unite, il Grip (Gruppo di ricerca e d'informazione sulla pace)
dell'Istituto di studi internazionali di Ginevra dedica alle cosiddette
"armi leggere": revolver, carabine, fucili, mitragliatrici ma
anche lanciamissili, cannoni anticarro e mortai di calibro inferiore ai 10
centimetri. Gli strumenti per eccellenza di "conflitti diffusi"
senza alcun fronte, talora nella forma di guerriglie urbane.
Per il Grip, l'impatto sullo sviluppo della diffusione capillare di armi
leggere va molto aldilà delle drammatiche «conseguenze dirette»
osservabili in caso di guerra aperta (perdita diffusa di personale nei
gangli vitali dell'economia, paralisi dell'industria e dei cicli di
colture, costi legati alle cure dei feriti). Una zavorra di «ripercussioni
indirette» appesantisce la vita dei Paesi super-armati anche in assenza
di guerra. Fra queste, la crescita generale di criminalità, che porta ad
esempio al lievitare dei premi assicurativi e dei costi legati alla
sicurezza. Sudafrica e Colombia, in questo senso, rappresentano casi
emblematici. Ad andare in tilt, a scapito dell'intera popolazione, sono
anche i servizi sanitari ed educativi, così come i trasporti. Altro
capitolo scottante, quello del calo di investimenti esteri.
Il rapporto suggerisce che le armi leggere, più di altre, mantengono
costantemente sotto ipoteca la vita civile di numerosi Stati. Il loro
traffico clandestino verso il Sud resta florido. In molti Paesi africani e
asiatici di destinazione finale - ad esempio in Liberia, nella regione
africana dei Grandi Laghi o nel Caucaso - le armi leggere «in parte perché
facilmente accessibili e maneggiabili, a buon mercato e portatili,
rappresentano un vettore primario di violenza». A dispetto di questi
effetti devastanti, «lo stock globale d'armi continua a crescere» e
l'anno scorso si contavano nel mondo «almeno 639 milioni di armi leggere».
Aldilà d ell'export, i maggiori Paesi produttori alimentano
abbondantemente anche il mercato interno. E anche su questo fronte, le due
rive dell'Atlantico sono molto più vicine di quanto si creda. La
diffusione di armi civili negli Stati Uniti è stata più volte
denunciata, nell'Ue resta invece un tema tabù. Eppure, «contrariamente
all'idea di un'Europa virtualmente senza armi - ricorda il Grip - i 15
Paesi dell'Unione europea detengono da soli 84 milioni di armi da fuoco.
L'80% di questo totale, cioè 67 milioni, sono nelle mani di civili".
Inoltre, anche in Europa le autorità riconoscono che «il numero d'armi
non repertoriate registrate e detenute illegalmente supera largamente
quello delle armi legalmente in circolazione».
Di fatto, il problema dell'armonizzazione delle legislazioni in materia -
alcune delle quali estremamente permissive - appare già fra le urgenze
della nuova Europa allargata. In generale, osserva il Grip, «dalla metà
degli anni Novanta il commercio internazionale di armi leggere sembra aver
rallentato in termini di valore e di volume». Il dato, però è da
prendere con cautela, dato che secondo alcune stime solo il 52% delle armi
circola per vie ufficiali. E l'«Europa pacifista» è chiamata a non
fingere di ignorarlo.
testo integrale tratto da "Avvenire"
- 29 aprile 2004