La rappresentazione di scene violente non è un fenomeno solo contemporaneo: è accaduto molte volte nella pittura del passato, anche con temi cristiani come l’inferno, il martirio o il supplizio

Se la violenza fa spettacolo

Quello che cambia con la televisione, rispetto al cinema o alla pittura, che restano esperienze circoscritte, è la ripetitività di certe sequenze inserite  nel «continuum» quotidiano Raccontare con parole un delitto
o mostrarlo in tv non sono la stessa cosa: mostrandolo, questo può suscitare orrore ma può entrare nella memoria del telespettatore e persino condizionarlo La rappresentazione di scene violente non è un fenomeno solo contemporaneo: è accaduto molte volte nella pittura del passato, anche con temi cristiani come l'inferno, il martirio o il supplizio

di Vittorino Andreoli

 

La violenza dentro la televisione, che è prevalentemente violenza giocata sulle immagini, ha degli antecedenti insigni nella storia e per questo appare corretto vedere la rivoluzione apportata da questo strumento, come lo sviluppo di un filone già molto attivo nel disegno, nella grafica e nella pittura. In particolare, a partire dal Cinquecento, quando la pittura si distacca dai temi religiosi finora dominanti. Sarebbe tuttavia un errore pensare che la vicenda grafico-pittorica cristiana sia lontana dalla violenza. Basti ricordare certe rappresentazioni dell’inferno, che occupano tutti i Giudizi Universali, dove i demoni compiono violenze inaudite, o i trionfi della morte che hanno caratterizzato l’autunno del Medioevo in tante zone d’Europa.
Violenze - rielaborate liberamente rispetto al racconto evangelico - si leggono anche sul corpo del Cristo soprattutto nel periodo del "Cristo sofferente", che domina il Duecento e il Trecento italiano - si pensi alla pittura senese - ma sono presenti in tantissime narrazioni pittoriche della Passione, da Grünewald a Mantegna, da Guido Reni a Francis Bacon.
Violenza, spesso descritta con grande dovizia di particolari, c’è pure in talune rappresentazioni del supplizio di santi e martiri, si tratti dell’immagine dominante, o di formelle o di polittici.
All’indomani della Riforma e nel periodo della prima evangelizzazione delle Americhe e dell’Asia che seguì le grandi scoperte geografiche, il tema del martirio e del supplizio torna in auge nella pittura, anche a scopo pedagogico, per preparare psicologicamente i missionari alle sofferenze e al rischio della vita che la predicazione nell’Europa spaccata dagli odi religiosi o nelle nuove terre pagane avrebbe comportato.
La fotografia continuerà questa tradizione dell’immagine singola e statica. Una tecnica in grado di riprendere magari un gesto di violenza inscenata.
Ma la grande trasformazione è quella portata dalla cinematografia, poiché qui la violenza, come del resto ogni altro aspetto dell’esistenza, diventa sequenza e quindi ripetizione di una vita scandita dal tempo con realismo e iperrealismo.
Lo stesso avviene con la televisione. Occorre sottolineare che in principio non vi era un apporto significativamente diverso tra cinema e televisione, il divario si è fatto progressivamente maggiore grazie ai tempi di esposizione. Il cinema era una divagazione da ricercare, andando fuori casa, e ha avuto il carattere dell’evasione speciale, mentre la televisione ha portato lo schermo dinamico in casa e quindi l’esposizione è aumentata considerevolmente, fino all’attuale media di quattro ore giornaliere.
Cambia l’atteggiamento di fronte ad un film, che si sceglie e si va a cercare, e magari rappresenta l’occasione per intrattenersi con un amico o una persona cara, rispetto alla disponibilità di spettacoli casalinghi che, proprio per questo, perdono il significato dell’eccezionalità. Esistono infatti differenze sostanziali tra cinema e televisione che si riflettono anche sulla violenza che possono rappresentare. Il cinema si caratterizza come "medium" in cui l’esperienza è chiaramente circoscritta rispetto alle altre routine quotidiane.
Il racconto televisivo invece si intreccia con le pratiche ordinarie, con il consueto dispiegarsi della vita di ogni giorno. La separazione tra il "medium" e il mondo della vita quotidiana non è affatto nitida.
Proprio per rilevare questa dimensione del problema, ossia la violenza come continuum, merita fare un cenno sulla tecnica della videoregistrazione e in senso più ampio delle video-cassette. È possibile riprodurre uno spettacolo di violenza o di sesso-violenza, e depositarlo nella memoria di una cassetta che ce lo ripresenterà all’infinito.
Per la stessa ragione un accenno va anche ai videogiochi, che possono ugualmente usare uno schermo televisivo e persino uno tascabile, dove l’abilità richiesta va spesso a legarsi alla capacità simulata di uccidere o di svolgere azioni di violenza. Vi è add irittura un premio se si riesce a fare «tanta» violenza, o «tot» omicidi, nello spazio riservato a ciascuna prova.

Insomma, la possibilità di produrre con continuità una rappresentazione pone problemi nuovi, un rapporto tra soggetto e immagini prodotte che tende alla dipendenza e dunque al bisogno di ripetere quella rappresentazione. Un meccanismo, questo, simile alle dipendenze da sostanze, dal gioco d’azzardo, oppure dal consumo ossessivo di cibo. In tali condizioni si perde il controllo critico. L’individuo giunge ad una simbiosi così ordinaria con la violenza da pervenire a un consumo cronico, fino a fare della violenza un prisma nel quale si riflette tutto il mondo ridotto a gesti distruttivi.
Tempo di esposizione e atteggiamento nel consumo televisivo cambiano enormemente il significato della violenza rappresentata, e modificano gli effetti che una tale esposizione può avere sul singolo anche per quanto riguarda il legame tra violenza rappresentata e violenza agita.
Sarebbe limitato pensare che la televisione abbia cambiato soltanto le modalità di vivere il tempo libero; ha cambiato pensieri e modi di pensare, interessi, abitudini di vita.
L’esperienza familiare si è modificata totalmente con l’avvento della televisione. All’inizio entravano in case castigate e povere spettacoli che per farsi allora attraenti si erano già arricchiti di avanspettacolo e dunque riempiti di ballerine e gambe - fino ad allora proibite e "peccaminose" - e che adesso si imponevano tra silenzi imbarazzati, destinati presto a diventare reazioni giocose e persino impertinenti.
Un ciclone sociale dunque non solo all’interno della famiglia ma nella stessa struttura comunitaria. Ed è in queste trasformazioni gigantesche che si inserisce il filone della violenza rappresentata in forme sempre più attraenti, come spettacolo appunto e non solo come cronaca.
Raccontare con parole un delitto passionale con tanto di coltello, o mostrarlo un simile delitto, produce un effetto complet amente differente. È possibile usare le immagini con una modularità di efficacia tale da far apparire il sangue di un corpo violentato come stesse per schizzarti in faccia, sporcarti, includendoti in qualche modo nella stessa violenza.

Il dramma dell’effetto sullo spettatore non è stigmatizzabile, e certo tra la moltitudine di telespettatori è facile ipotizzare un effetto non voluto. Se un individuo con forti tendenze perverse assiste a una scena di violenza di sangue sarà stimolato, mentre molti altri sentiranno quella scena come un orrore che mai potrebbe appartenere loro. Il sangue ha sempre un impatto "interessante", l’uso della violenza del sangue ha molto séguito e attiva molta attenzione, magari per denigrarla e disapprovarla. Entra nelle fantasie, nella memoria, in quel cassetto che tuttavia non rimane estraneo alla vita quotidiana, anzi finisce per condizionarla.
Dalla violenza del sangue si passa a quella del corpo: alle percosse, alle sberle, ma anche al massacro che può non avere sangue, come quando un corpo sbatte contro un oggetto, o nel caso di un incidente automobilistico.
Occorre ricordare che c’è una violenza che la società non dichiara tale: è la violenza arbitrata dentro alcune regole precise. Il richiamo è allo sport e a quegli sport violenti di cui fa parte la boxe, ma anche ad alcune espressioni del calcio, che può giungere a provocare cadute o lesioni ad un giocatore avversario.
Nel cogliere questa dialettica si percepisce anche come l’atteggiamento della società sia multiforme e contraddittorio nei confronti della violenza rappresentata, e si finge di ignorare che nell’individuo non esistono tante reazioni differenti a seconda dei generi televisivi o delle "liturgie" rappresentative. La violenza del corpo ha espressioni di diversa intensità, e certo la più estrema è quella di un corpo bambino abusato da un pedofilo, di uno stupro su un minore, oppure il maltrattamento di cadavere o l’uccisione del cadavere come parte del fenomeno dell’overkilling.
Ovviamente non è necessario che una storia o una pratica violenta sia seguita momento per momento: tempi che non sono ammessi dalla logica televisiva. Ci possono essere dei vuoti che vengono riempiti precisamente da una fantasia violenta, la quale ricostruisce esattamente il non rappresentato. Se mi viene mostrato l’incontro tra un adulto e una bambina, e dopo un po’ una bambina che piange nuda e con le mani in una zona del corpo dolorante, immediatamente "vedo" la sequenza non vista ed è come se l’avessi vista e fosse stata rappresentata.

Tali considerazioni vanno tenute presenti anche in tema di valutazione del prodotto televisivo: non si tratta di misurare solo la durata di scene esplicitamente violente, quanto la sequenza che si attiva nella relazione tra telespettatore e scena presentata. Un binomio capace di fare dello spettatore un soggetto interattivo e complice nella rappresentazione violenta di una scena.

testo integrale tratto da "Avvenire" - 19 agosto 2003